Cultura e Spettacoli

Prima di Instagram c'era Duane Michals

Fotografie seriali e brevi racconti. Una mostra sul profetico artista

Prima di Instagram c'era Duane Michals

Per chi volesse chiarire la differenza tra un fotografo puro e un artista che utilizza il mezzo fotografico, l'opera di Duane Michals non offre certo una risposta, anzi abilmente confonde le acque. Perché non c'è ambito della fotografia contemporanea che questo «grande vecchio», nato nel 1932 in Pennsylvania e attivo a New York dal 56, non abbia sondato e sperimentato: la moda, il reportage, il ritratto, il nudo, la foto d'arte, il concettuale e la Narrative Art, fino al video e al cinema. Con un sano senso del realismo Michals non ha mai peraltro escluso la natura commerciale di un lavoro che è, innanzitutto, professionismo. Tra i suoi lavori su commissione, le riprese dei giochi olimpici a Messico '68 e l'artwork per la copertina del disco Synchronicity dei Police nel 1983.

Raro ammirarne un così vasto corpus di lavori, dunque meritoria l'operazione del MEF Museo Ettore Fico- di Torino, uno degli spazi espositivi oggi più vivaci, di proporne l'antologica fino al 25 luglio, dopo le due tappe spagnole a Barcellona e Granada. Sessant'anni di scatti cominciati in Russia con un taglio da Street Photography (stile Robert Doisneau e Robert Frank per intenderci) a cogliere le espressioni di volti anonimi e continuati con Empty New York, scorci di Manhattan svuotati dalla presenza umana.

Amante della pittura, Michals trova ispirazione per le proprie fotografie da alcuni grandi del 900 de Chirico, Magritte e Balthus- che ritrae, così come altri artisti (memorabile lo scatto di Marcel Duchamp, intellettuali (Pasolini), gente del cinema (Scorsese, Eastwood, Maryl Streep). L'arma più affilata, tagliente e anticelebrativa, è quella dell'ironia, che non risparmia nessuno, tantomeno se stesso, a cominciare dalla propria omosessualità militante. Le opere più belle di Michals sono quelle organizzate in storie un anticipatore di Instagram, insomma - dove la parola scritta dialoga a stretto giro con l'immagine realistica, istantanea, rigorosamente in bianco e nero.

Siamo negli anni '70, l'arte è tutta concettuale e la fotografia diventa il linguaggio privilegiato anche per chi non la sa usare; così Michals si diverte, con spirito sarcastico, a immaginare microracconti costruiti su paradossi, situazioni surreali che pur trattando a volte questioni esistenziali, come l'equilibrio precario dell'esistenza, la paura della morte, gli incubi nel quotidiano, funzionano soprattutto perché capaci di strappare più di un sorriso.

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