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Il Pd litiga ma non decide: resa dei conti ancora rinviata

Alta tensione e nulla di fatto all'assemblea sul segretario. Renzi minaccia di dire chi voleva l'accordo coi grillini

Il Pd litiga ma non decide: resa dei conti ancora rinviata

Tutti in piedi a cantare «siam pronti alla morte», poi giù botte da orbi. L’Assemblea nazionale del Pd decide di non decidere, per evitare conte fratricide proprio mentre nasce «il governo più pericoloso della storia della Repubblica », come ripetono un po’ tutti dal palco, ma poi la rissa esplode comunque.

Tra urla, fischi, «buuuuu» e scambi di accuse contrapposte, si consuma la rottura definitiva - anche se non ufficializzata - tra due anime che per anni hanno convissuto a fatica: quella della sinistra post- ideologica che si è riconosciuta nel renzismo, e quella della sinistra tradizionale, nostalgica di vecchi Ulivi e riti Pci, che ha vissuto l’era Renzi come un pesante giogo e ora anelava a scrollarselo definitivamente di dosso. A farne le spese, alla fine, è stato il reggente Maurizio Martina, che sognava di uscire dall’assemblea dell’Ergife con l’investitura a segretario, sia pur pro tempore. E invece, con il congelametno delle dimissioni di Matteo Renzi, ne è uscito come reggente fino alla prossima assemblea, quando - dopo l’estate - si deciderà se e come convocare il congresso per eleggere un nuovo segretario. E la sua relazione è stata votata da meno di 300 delegati su 829 presenti.

Molti però, a cominciare dallo stesso Renzi, se ne era già andati ben prima del voto finale: un segno chiaro di quella sfiducia che ormai regna tra l’ex segretario e il suo vice che «non è stato ai patti », come dicono i renziani, e nel suo discorso si è «auto-investito come segretario», annunciando che «ora tocca a me». Un compromesso faticosamente raggiunto, dopo un’intera notte di trattative che sono andate avanti ieri mattina anche all’Ergife, con i delegati già seduti in platea e l’apertura dell’Assemblea che slittava prima di un’ora, poi di due. Alla fine arriva al voto un ordine del giorno approvato all’unanimità dall’ufficio di presidenza, dove sono rappresentate anche le minoranze: è quella mediazione che già da qualche giorno veniva caldeggiata dai renziani, da molti ministri e dallo stesso Paolo Gentiloni per evitare drammatiche spaccature: nessun voto sul segretario, rinvio delle decisioni sul congresso ad un altro momento, niente intervento introduttivo del segretario uscente. «Nel quale - aveva promesso Renzi agli avversari - avrei detto anche chi voleva l’accordo con i grillini e perché lo ho stoppato».

Ma il fronte anti-renziano e Martina hanno resistito, fino al momento in cui i supporter dell’ex premier hanno fatto filtrare di avere 432 firme di delegati su un suo odg per convocare immediatamente il congresso. Firme che avrebbero potuto essere riconvertite in altrettanti voti per eleggere un segretario, nella persona di Lorenzo Guerini. Non la maggioranza bulgara di un tempo, quando Renzi poteva contare sul 70% degli organismi Pd, ma una maggioranza comunque sufficiente a spodestare Martina e quanti sognano, attraverso di lui, di «derenzizzare» il Pd. La pistola sul tavolo ha funzionato, ma il clima è rimasto surriscaldato e la sinistra orlandiana (ma anche molti renziani stufi di compromessi) hanno votato contro la mediazione. E la profonda divisione politica sull’identità e la mission del Pd rimangono. Con i renziani che accusano gli altri aver vagheggiato un patto col M5s e di volersi ora «rifugiare di nuovo nel rassicurante recinto della sinistra-sinistra, recuperando i vari D’Alema e Bersani». E gli anti-Renzi che sospettano l’ex premier di considerare ormai obsoleta la sinistra, e di velleità trasversali macroniane.

«Ma io - avverte il ministro Orlando dal podio - il partito degli anti-populisti insieme a Berlusconi non lo voglio fare».

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