Cultura e Spettacoli

Le troppe ambiguità di quel lungo anno di finta rivoluzione

Nel libro di Marcello Veneziani i cortocircuiti culturali che da allora ci perseguitano: eccone un estratto

Le troppe ambiguità di quel lungo anno di finta rivoluzione

NON-EVENTO

Nel 68 cambiò tutto ma non successe nulla. Non c'è un evento cruciale, storico, simbolico che abbia caratterizzato il 1968. Nessuna presa della Bastiglia, nessun assalto al Palazzo d'Inverno, nessuna decapitazione di sovrani e nessun avvento al potere. Non accadde nessuna rivoluzione e nemmeno un'insurrezione con vincitori e vinti, vittime e prigionieri. Non ci fu una guerra e nemmeno vere battaglie. Un anno povero di grandi eventi legati alla Contestazione ma pieno di parole, traboccante di slogan, di gesti simbolici, di sfilate, di proteste, di scontri, ma senza bilanci storici. Verboso, parolaio; interminabili e scontrose assemblee. Pochi fatti, tanta Chiacchiera. Il 68 non è un avvenimento storico ma un clima, un humus, forse un virus, una nube tossica o un gas esilarante, insomma un'ineffabile atmosfera che permeò un'epoca tutt'ora vigente e ne dettò le tendenze. Fuochi fatui per un incendio virtuale ma globale.

GLOBALE

Comincia col 68 il nostro infinito presente globale. Il passato si volatilizza, la storia si dimentica, il futuro si dilegua e diventa solo un interminabile presente. Tutto sembra aver inizio ora, e tutto deve arrivare subito, con impazienza e insofferenza. Si volatilizzano pure i confini, si perde il senso del limite e delle storie locali e nazionali, tutto diventa globale. Fu chiamata infatti contestazione globale, ma in principio globale stava per totale, oggi sta per sconfinato. Mondiale. L'unica linea di frontiera è disegnata dalla tv, tra le zone in luce e quelle in ombra nel pianeta.

Il presente rompe i suoi argini, cancella il passato e fagocita l'avvenire, la trascendenza viene riportata al presente, il futuro viene convocato nell'imminente, la passione per l'illimitato esplode e si libera di ogni confine. Totale, infinito, globale. Col 68 l'infinito prende il posto dell'eterno, l'illimitato sostituisce l'immortale.

IMMEDIATO

Il sessantotto segna l'avvento dell'Immediato in tutta la sua ambiguità: immediato come privo di deleghe e mediazioni, ma anche immediato come istantaneo, da ottenere subito, senza attese e sacrifici. L'immediatezza come improvvisazione, riduzione del desiderio alla sua realizzazione, futuro che si contrae, confluisce nel presente. Il tempo del 68 come l'Ulisse di Joyce si svolge tutto in un giorno solo, una lunga, interminabile giornata che si protrae nella notte. Sorse allora, con grida libertarie, la dittatura del presente. Eliot prefigura la condizione sessantottina: «... cercando di disfare, brogliare, districare e rattoppare insieme il passato e il futuro, tra mezzanotte e l'alba, quando il passato è tutto inganno, il futuro assenza di futuro». Col tempo, la rivoluzione di piazza si ricacciò nella sfera intima e personale; l'orologio della piazza fu sostituito dall'orologio da polso. Il tempo assoluto dal 68 in poi è tempo soggettivo, prima a misura di collettivo, poi di singolo.

La generazione del 68 fu la prima a crescere avendo in casa frigorifero e termosifone, tv e telefono e l'auto in famiglia. I sessantottini furono i primi a vedere l'uomo nello spazio, il villaggio globale, la messa non più in latino. I primi a vedere le guerre e le rivoluzioni direttamente in casa, tramite la tv. Fu la prima generazione a sentirsi figlia di un tempo prima che di un luogo, di un'epoca prima che dei propri genitori.

POSTVERITÀ

Nel 68 si persero i confini tra il vero e il falso, tra il fatto e la diceria, tra il ragionamento e l'emozione, tra i diritti e i desideri. Il 68 scoprì che dietro ogni verità, dietro ogni fatto, dietro ogni ordine, ogni storia e ogni legge, anche di natura, c'è un abuso di potere, un sopruso e un falso ideologico. Il regno delle fake news sorge lì o quantomeno trova la sua giustificazione ideologica più potente. Niente è come appare, tutto è come mi sembra. Non c'è la realtà vera, e non c'è fedeltà, autorità, natura, merito; ma tutto è soggettivo e soggetto ai modi di vedere, di pensare, di sentire. Tutto è figlio del clima sociale, è frutto d'interpretazione e stato d'animo. Nel 68 si persero i confini tra lecito e illecito, tra naturale e volontario, tra realtà e sogno, tra alto e basso, tra virtuale e fattuale. E tra sessi, tra Stati, tra popoli. Saltano gli argini, tutto è spettacolo. Nasce la post-verità, cioè la verità a modo mio o la verità secondo il potere dominante. Le fake news di oggi maturano in quel clima di allora.

NEOBIGOTTO

Conseguenza diretta del conformismo sessantottino fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista che nasce per tutelare le minoranze ritenute svantaggiate e le categorie ritenute deboli e oppresse, ma finisce col diventare un nuovo catechismo al servizio dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il 68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il 68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto altre lenti. Il codice della falsità si applicò alla sfera sessuale e lavorativa, alle malattie e agli handicap, alle diversità, stravolgendo parole, ruoli, mansioni, definizioni, significati. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il politically correct è il rococò del 68, ancora in uso, imposto dalle classi dominanti. Con tutto lo sciame di eufemismi e falsità pur di nascondere la realtà sotto il tappeto del nuovo bigottismo.

Una rivoluzione contro l'ipocrisia borghese che impone una nuova, stucchevole ipocrisia radical sotto il chador del nuovo pudore umanitario, buonista.

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