Cultura e Spettacoli

La contestazione? Quella vera fu anticomunista e dimenticata

Il cuore della rivolta contro il potere e l'oppressione fu nei Paesi dell'Est Ma sin da subito le sinistre d'Occidente fecero finta di niente

La contestazione? Quella vera fu anticomunista e dimenticata

La contestazione libertaria degli anni '60 è stata solo una posa? Si può ridurre tutto a una grande, inutile gazzarra? No c'è stata davvero una rivolta che aveva alle spalle un grande sogno. Un sacco di giovani e di intellettuali hanno rischiato grosso, e pagato in prima persona, per provare a porre fine all'autoritarismo di Stato e affrancarsi da un potere imperialista e spietato. Un potere che voleva asservire tutto all'economia oligarchica di un solo Paese. Peccato che questi studenti e intellettuali non fossero a Parigi, Londra, Washington o Roma. Peccato che nelle immancabili celebrazioni per il Sessantotto questi martiri - veri - rischino come al solito di finire nel dimenticatoio, almeno qui da noi in Occidente. Del resto già proprio durante il '68 e gli anni a seguire chi contestava, con più agio, da questo lato della Cortina di ferro, nella maggior parte dei casi si guardò bene dal solidarizzare troppo apertamente con la rivolta, molto più motivata, che divampava, in contemporanea, nei Paesi dell'Est.

Era più facile far finta di niente, oppure derubricare le proteste a tentativo di «restaurazione reazionaria». Del resto erano scomode: rischiavano di mettere in crisi quei miti a cui le sinistre contestatrici volevano aggrapparsi. Volete un esempio? Il guru della contestazione europea alla guerra del Vietnam, il drammaturgo tedesco Peter Weiss, svilì così il grido di dolore che, già nel 1967, arrivava da Praga: «Gli intellettuali cecoslovacchi sono caduti vittime di fatali fraintendimenti e di una sopravvalutazione della libertà in Occidente». Loro forse fraintendevano ma lui si dimostrò completamente miope di fronte all'orrore di un incipiente (agosto 1968) occupazione russa.

Ma Weiss non fu un caso isolato. E dire che ignorare quanto stava accadendo in Cecoslovacchia era davvero difficile. La protesta studentesca era già iniziata nel 1964. Gli studenti ormai mal digerivano il fatto che molti dei colpevoli dei crimini dell'epoca staliniana fossero ancora al loro posto. Avevano creduto che la denuncia dei crimini del Piccolo padre da parte di Nikita Krusciov fosse l'inizio di qualcosa di diverso anche nei rapporti tra Mosca e gli Stati satellite. Insomma avevano creduto alla destalinizzazione ma non vedevano cambiare nulla, ne all'esterno ne all'interno del partito comunista nazionale. Risposero con l'unica arma possibile: ironia. Nel maggio 1966 approfittarono delle sfilate dei carri allegorici che si tenevano a maggio negli atenei per colpire il regime e la sua retorica. Ecco alcuni degli slogan: «Beati i poveri di spirito. Il loro regno è la Cecoslovacchia»; «Viva l'Urss, ma che si mantenga da sola!»; «Basta con la letteratura rosa, Il Rudé Právo la sostituisce benissimo».

A quel punto ci pensò la polizia, ma intanto anche molti intellettuali stavano prendendo posizione contro il regime. Apparve del tutto evidente durante il congresso degli scrittori (giugno 1967). Milan Kundera (nel tondo) disse chiaramente che tra nazismo e stalinismo il passo era breve. Ma non era forse quella la sua affermazione più sgradita al partito. Suonava più pericoloso sostenere che la cultura ceca doveva «rientrare nel contesto europeo». Vaclav Havel, Milos Forman e Jiri Menzel denunciarono, invece, lo «spirito da pogrom nei confronti dell'opera creativa degli intellettuali».

Di solidarietà in Occidente ne raccolsero? Poca, con l'eccezione di Günter Grass. Un esempio clamoroso? Il reportage da Praga scritto da Umberto Eco per l'Espresso fu un capolavoro di disinformazione. Non si può non citare almeno qualche passaggio di quella che dovrebbe essere la descrizione di una violenta invasione: «Ai negozi di alimentari grandi code... La gente parla in russo coi soldati, gli chiede perché sono lì. I soldati rispondono che a Praga c'è il colpo di stato fascista, la gente ride... La tensione è spasmodica ma la città brulica di folla come a una festa patronale, e ogni carro armato è un comizio... E così succede qui coi russi, sono degli amici, dal governo antipatico, ma buoni se presi uno a uno... Sono le due e mangiamo al ristorante dell'Hotel Paris, tutto una fioritura di liberty dal di fuori... La polemica non è con il comunismo è con l'alleato troppo forte che li sta colonizzando».

Della Polonia si parla addirittura meno che della Cecoslovacchia, oggi come allora. Il '68 polacco iniziò quando venne vietato il dramma teatrale Gli avi di Adam Mickiewicz. Il testo, ottocentesco, era blandamente anti-russo e la gente a teatro applaudiva troppo, un po' come gli italiani applaudivano Verdi. Il divieto fece scoppiare le proteste degli studenti. Di nuovo i giornali italiani e europei, in generale, ignorarono quei fermenti persino mentre venivano allontanati dall'insegnamento Zygmunt Bauman e Stefan Morawski. Non bastarono a cambiare le cose nemmeno gesti clamorosi. In Polonia l'8 settembre si tennero le celebrazioni di regime della festa nazionale. Davanti al pubblico (compresi giornalisti e diplomatici stranieri), Ryszard Siwiec, un dissidente, si diede fuoco in segno di protesta per l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia avvenuta venti giorni prima. Qui in occidente quasi non se ne parlò. In un assordante silenzio, la Polonia cadde sotto una cappa che sarà sollevata solo negli anni '90.

Persino i fermenti della (per noi molto più vicina) Jugoslavia vennero completamente ignorati. O fraintesi. Poco peso fu dato a Kongres, l'opera teatrale di Primoz Kozak che denunciava come l'università in Jugoslavia fosse solo appannaggio dei figli dei funzionari di partito. Praticamente nessuno fece caso che «sotto» si stava sviluppando anche un Sessantotto delle nazioni, a partire dal Kosovo. Anche qui vincerà la repressione (con poche ridicole concessioni).

Ma dallo scontento alla nascita di un nazionalismo violento il passo non è stato poi così lungo.

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