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Pozzo, il giornalista allenatore tra due Mondiali e una penna

Tenente degli alpini, portò l'Italia ai titoli del '34 e del '38 Ma prendendo lo stipendio dalla Pirelli e da «La Stampa»

I l tenente degli alpini Vittorio Pozzo riposa nel camposanto di Ponderano. I biellesi antichi rendono omaggio alla memoria del nostro commissario tecnico mondiale, le parole che segnano la dura lapide sono romantiche come era duro e romantico il pensiero di Pozzo: Vive nel futuro. Dove l'azzurro delle maglie diventa l'azzurro dei cieli. Il calcio perde la memoria, la usa quando ne ha voglia per poi riporla nei cassetti. Vittorio Pozzo fu ed è ancora il calcio italiano. E quello mondiale. Un uomo di un'altra epoca, non soltanto temporale, un'ombra lunga, una figura epica e unica, giornalista e dirigente di azienda, calciatore e allenatore, soldato e tenente nella prima guerra: «Se possono morire per l'Italia possono giocare per l'Italia». Non aveva eroi ma in questo seppe trasformarli, trattava i suoi ragazzi come fossero al fronte, pronti al combattimento però leale, severo, aspro. Gli azzurri non potevano leggere i giornali, ci pensava Vittorio Pozzo a rendere loro conto di opinioni, critiche ed elogi: «Perché dovevano ascoltare una voce sola e a questa ubbidissero come mi avevano insegnato i sette anni di naja». E veniva loro proibito di aprire la corrispondenza, lettere di famigliari e di tifose, cartoline, telegrammi, era ancora lui, il commissario tecnico, a sbrigare la posta, leggendo gli scritti che amici e parenti avevano spedito ai ragazzi in ritiro.

Fu Pozzo a inventare il raduno prima delle partite, negli alberghi, mai di lusso ma locande anonime, Cuneo, il lago Maggiore, stanze con letti cigolanti, colazione a pane e latte, poi, a piedi, niente torpedone o automobile, per un chilometro, verso il campo di allenamento, nessun vizio, nessun privilegio, i soldati della nazionale dovevano comprendere che chi riposava a Redipuglia o a Gorizia aveva lottato ed era morto anche per loro, la guerra sì, quella era una cosa seria, drammatica, feroce, tragica, non il giuoco del calcio, il punto, come scriveva il tenente, senza mai ricorrere al sostantivo inglese goal, in omaggio alla lingua ufficiale del regime. Perché Pozzo fu un fascista di osservanza ma non di fede pura, non lo si vide mai dinanzi ai cippi e sacrari inneggianti al partito, piuttosto portava con sé gli azzurri a deporre corone di alloro dinanzi al monumento dell'alpino caduto al fronte.

Era questo il suo tormento e la sua missione e i soldati obbedivano, nel rispetto di un uomo che, quando si presentava, portava la mano destra alla fronte, memoria del saluto al copricapo, un uomo che frequentava cinque lingue, che aveva giuocato nel Grasshopers, che aveva studiato l'inglese e il football a Manchester, che non aveva abbandonato definitivamente l'impiego dirigenziale alla Pirelli, che viaggiava in seconda classe e scriveva per le pagine di sport de La Stampa, la sola, con la Pirelli, che gli garantisse il salario, perché Pozzo mai volle una lira dalla federcalcio, per essere indipendente, libero di scegliere, di sbagliare, di decidere, di lasciare. Pensando ai contemporanei si capisce perché il torinese, nato dalle parti della vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa, sia stato un esempio inimitabile, puro alla fonte, mai mercante di se stesso come accade ormai dovunque, in questo falso mondo di sepolcri imbiancati.

Vittorio Pozzo portò l'Italia a vincere due titoli mondiali, in Italia e in Francia, le Olimpiadi in Germania, la coppa Internazionale, plasmò giovani virgulti e fece ricorso a vecchie glorie, convinse Combi, ormai in pensione, a lasciare l'impegno del bar, a Torino, in fondo a via Roma, di cui il portiere della Juventus era titolare, per tornare a difendere la porta azzurra, fu il confessore di Ferraris IV che si trastullava sulla sua Alfa Romeo rossa nelle notti della grande bellezza romana, tra tabarin, sale biliardo e alcool, riportandolo a vincere il mondiale del Trentaquattro. Gli bastava fissare negli occhi i suoi soldati; Pozzo aveva una postura goffa, di certi professori di scuola, la pancia già gonfia quando era giovane alpino, protesa in avanti, il tono di voce sereno, caldo ma perentorio. Nacque così la squadra e così la descriveva nei suoi resoconti, a braccio, per La Stampa, il giorno stesso della partita. Era un gruppo pronto alla disfida, senza paure ma Pozzo sapeva ammettere, lealmente, la forza dell'avversario, come volle scrivere, dopo il pareggio storico con l'Inghilterra nel maggio del Trentanove. Nonostante i nostri due titoli mondiali l'allenatore giornalista commentò la tecnica e lo stile, la forza e la scuola inglesi, tutte superiori alle nostre qualità di passione e, poi, quei numeri sulle bianche, abbondanti camicie dei tre leoni, gli spettatori di San Siro che si chidevano che fosse quel 4 o quel 7, mentre gli azzurri vestivano la maglietta anonima, confusi, anche, nella pioggia, nel fango e nelle mischie.

La débacle con la Danimarca, alle Olimpiadi di Londra, segnò l'ultima stazione di Pozzo con l'Italia, quel quattro a zero fu la fine di una storia bellissima, gli sviluppi tattici del football non erano entrati nella testa grande dell'alpino, il suo mezzo sistema pagava ancora il prezzo al metodo che lo aveva portato ai trionfi, il nuovo calcio era difficile da assorbire e comprendere. Gli toccò, anche, l'atto straziante di riconoscere le salme a Superga; fu, per lui, il ritorno alle immagini della guerra, i suoi ragazzi, i suoi soldati giacevano su una collina lontana dal rumore della folla, nella nebbia nera della morte. Fu il tramonto di una squadra leggendaria e, insieme, l'ultima luce, fioca, di un uomo al quale il calcio tutto dovrebbe rendere omaggio, non nel camposanto di Ponderano ma negli stadi e dove un pallone rotoli sull'erba, correndo verso il punto, la rete, la porta, il gol. Onore al tenente Vittorio Pozzo.

(28. Fine)

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