Cultura e Spettacoli

L'arte sopravviverà al brutto: parola di Anselm Kiefer

Il grande pittore tedesco ridicolizza le fiere cool, gli speculatori, le arti-star. E predica un "senso"

L'arte sopravviverà al brutto: parola di Anselm Kiefer

L'arte sopravvivrà alle sue rovine è un buon titolo che potrebbe diventare un apoftegma di uso corrente, un po' come successe alle celeberrime Lezioni Americane di Italo Calvino alla Harvard University. D'altronde è stato scelto da Anselm Kiefer per dare un verso proprio a un corso, di Creazione artistica, che si è tenuto tra il 2010 e il 2011 al Collége de France di Parigi, e che l'artista tedesco ricordava essere una frase di Theodor Adorno, ma così non è. Il libro che riassume il seminario, e che esce ora in Italia (L'arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli, pagg 212, euro 25) ci riconcilia con l'arte contemporanea le cui strade sono stravaganti e sempre più disgiunte dalla cultura e dalla letteratura, e gli specialisti del settore, i cosiddetti curator, si esprimono in una sorta di neolingua che ha definitivamente allontanato scrittori, filosofi, poeti, e a maggior ragione il pubblico pagante, attonito di fronte a provocazioni, nonsense e amenità varie. Se gli artisti dell'antichità spesso rivaleggiavano con gli scienziati e con i letterati, quelli della contemporaneità hard sembrano disinteressati al confronto e in modo autistico concentrati solo sulla propria deformazione. Anselm Kiefer (nato a Donaueschingen, nel 1945), al contrario, si dimostra uomo di solida cultura capace di pensare anche in termini non artistici, inoltrandosi con buon equipaggiamento e senza tema nei campi della poesia, della teologia, della scienza. E le sue opere, da quelle più concettuali a quelle figurative, scopriamo, trovano ispirazione non solo in eventi e visioni personali, ma in una congerie di cose, rimandi, assonanze frutto di una lunga stratificazione culturale che risale fin dall'infanzia.

Al di là dei molti riferimenti, da Hugo a Genet, da Goethe a Rilke, pure Darwin, Proust, Rimbaud, Pessoa, Pasolini..., al di là delle varie ossessioni, quella di abitare più studi in giro per l'Europa (Francia, Germania, Austria, Portogallo), o l'altrettanta celebre fissazione per i materiali (il piombo e la sabbia), il perno centrale delle lezioni è ovviamente il fare arte, anzi il «cosa è arte». Kiefer innanzitutto premette enfaticamente, facendo ricorso a una sorta di preterizione, «che non esiste una definizione di arte», salvo poi durante tutto il saggio puntualizzare con sempre maggior precisione la sua idea di arte. Per esempio ci dice che «l'arte non progredisce» a differenza delle scienze che integrano i progressi ottenuti su cui si fondano per proseguire il loro sviluppo, l'arte invece va in due direzioni diverse, può andare avanti e tornare indietro, può perfino «regredire». È un primo assunto non di poco conto e in contro tendenza rispetto al mainstream curatoriale che ha imposto la visione di un'arte progressiva, la cui ultima scoperta o trovata sostituirebbe la precedente essendo più nuova e dunque più vicina alla verità delle cose. Se non bastasse, Kiefer aggiunge che la «scienza non può dichiarare obsoleta la mitologia», cioè il linguaggio metamorfico e mitopoietico sui cui si fonda l'arte, anzi vice versa si potrebbe dire che la scienza serva la mitologia illustrandola. D'altronde «la scienza non apporta mai certezze», poiché più conoscenze si acquisiscono più si spalancano davanti a noi le porte dell'ignoto. Al contrario, l'arte è la vera conoscenza, «il mondo reale non esiste se non attraverso l'opera d'arte o la poesia, che si distinguono nettamente dalla vita». In questo senso, nell'idea di assoluto, Kiefer sembra avvicinarsi ai Romantici o addirittura alla Scolastica, tanto da affermare che «l'arte dovrebbe permettere di guardare al di là delle cose, il visibile dovrebbe essere semplicemente il supporto dell'invisibile, l'emanazione del mistero divino».

Certo, Kiefer non è un teorico, è un artista e - sintetizzerebbe Goethe - «Crea artista! Non Parlare!». Non deve convincere, o essere del tutto coerente, semmai ha il compito di creare opere perfette, ed è quello che ha fatto ai massimi livelli durante un cinquantennio. Per questo, il procedere nel saggio va per illuminazioni, per analogie, per frammenti, come spesso è stato il suo lavoro, così denso, drammatico, sebbene dotato di una «visibilità», di una leggibilità, di una chiarezza tanto forti da non necessitare sotto-testi o pre-testi o con-testi come vale per molta dell'arte contemporanea. In ogni caso, la sua idea, pagina dopo pagina, si chiarisce fino al limite di farci capire quale arte «sopravvivrà alle sue rovine» e perché: cioè un'arte, riassumiamo con l'accetta, che sia segno, forma, senso, e perfino bellezza. Tutto il contrario di quello che da un lato propone l'anti arte (un'aggressione endemica al mondo dell'arte perfino positiva, perché dalle ceneri rinasce la vera arte) e che d'altro propongono il mercato, la moda, il design che «parassitano l'arte impiegando le proprie strategie», la impoveriscono, la volgarizzano.

Kiefer, a scanso di equivoci e per essere chiaro fino in fondo, ridicolizza Documenta di Kassel, la più cool e politicizzata tra le manifestazioni del contemporaneo, dove gli artisti scelti non partono dall'atto creativo, ma procedono invertendo il processo, cioè partono dalle teorie e producono adeguandosi ad esse; eppure «è l'opera che dovrebbe precedere, passare davanti al discorso, alla riflessione estetica o alla teorizzazione», in quanto oggetto l'opera deve essere anteriore alla teoria e infatti «l'arte che ho in mente io va nella direzione opposta». E c'è spazio anche per una staffilata agli speculatori che scommettono sui rendimenti dell'arte e ne depauperano il senso, compreso gli artisti, si veda nello specifico Damien Hirst, per cui la strategia commerciale vale più dell'opera in sé, e che in modo cinico rappresentano il punto più estremo di distruzione dell'arte.

L'arte però sopravvivrà. Secondo Kiefer, la bellezza, la grandezza di un'opera, consiste nella sua assenza, o nel suo liminale apparire.

Per apparire però è necessario un vuoto intorno, una «radura» (un termine sui cui hanno ragionato a lungo Heidegger e Jünger), uno spazio che crea una distanza, un luogo nel bosco, separato dal bosco, dove viene posta una pietra con sopra alcuni libri di piombo (coem fece a Barjac, nel 2007), sintesi e simbolo di quel processo alchemico, tra nigredo e albedo, di cui l'artista tedesco come uno sciamano, un druido si fa interprete.

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