Cultura e Spettacoli

Leone Piccioni, un elegante liberale che non si piegò all'egemonia marxista

Il ricordo: ecco chi era Leone Piccioni

Leone Piccioni, un elegante liberale che non si piegò all'egemonia marxista

Leone Piccioni ci ha lasciato da poco, novantatreenne, con l'eleganza e lo stile con cui ha vissuto. Personalmente ne ho un ricordo bellissimo, di un uomo di lettere che era anche un uomo di mondo, che si intendeva di whisky e di jazz, che sapeva conversare amabilmente ma anche sostenere fermissimamente le proprie idee. Alla domanda se si sentiva un intellettuale di destra - che gli pose Silvia Zoppi Garampi nel libro-intervista Attualità del mio Novecento, Libreria Dante&Descartes, 2016) - ribattè con sicurezza di no, di sentirsi un «cattolico liberale». E come esponente di una cultura cattolico-liberale ha lavorato controcorrente in anni in cui la sinistra marxista godeva di una egemonia quasi indiscutibile.

Era figlio di un ministro importante, Attilio Piccioni, fedele a De Gasperi e uomo di punta della DC. Entrò alle pagine culturali del Popolo, poi alla RAI, e all'Università. Sin da subito polemizzò con Leonida Repaci per la cappa di sinistra sotto cui teneva il premio Viareggio appena fondato. Poi costruì la sua vita su modelli eccellenti, a cominciare da De Robertis, Longhi, Carrà, Pavese, che incontra giovanissimo al Caffè Roma di Forte dei Marmi. Una sua opera fortunata del 1969 si intitola non a caso Maestri e amici, e comprende ritratti di scrittori, critici, pittori, poeti. La poesia è la sua passione più profonda, e tra i poeti, il destino volle che fosse vicino in tutto e per tutto al più grande: Giuseppe Ungaretti. Diventò il giovane amico che il maestro chiamava «Leoncino», il curatore più appassionato della sua opera e il custode più intimo della sua memoria. Piccioni racconta come si comportava Ungaretti all'Università durante gli esami: con una distratta e infinita condiscendenza verso gli studenti, sino a dare 18 anche a uno che aveva sostenuto che il direttore della Voce era Foscolo... E racconta come nascevano, quasi «sotto parto», le poesie del maestro, che alle volte le declamava e le rifiniva ad alta voce anche sul tram mentre andava all'Università, lasciando allibiti gli altri passeggeri. Piccioni non nasconde neppure le debolezze del vecchio Ungaretti. Per esempio durante certe riunioni della giuria di qualche premio letterario, Palazzeschi si sedeva vicino a Leone e gli accarezzava il braccio: cosa verso cui lui era tollerante, mentre Ungaretti si «incazzava come una iena», sicuramente in preda più a gelosia che a omofobia. Che poi secondo Piccioni, l'omosessualità in Palazzeschi era «più fumo che arrosto», non un'ossessione come in Pasolini e Penna.

Nel libro Maestri veri e maestri del nulla (1979) si tolse il gusto di indicare tra questi ultimi Alberto Asor Rosa e Carlo Salinari: io resto stupito, se erano maestri del nulla i due intellettuali marxisti, come definire oggi la marmaglia che occupa buona parte della scena culturale? Quelli di Leone Piccioni erano altri tempi.

Per fare capire quanto, ecco il comitato di redazione della trasmissione della RAI L'Approdo, una sua creatura: Bo, De Robertis, Longhi, Ungaretti, Cecchi, Gadda, Contini, Bacchelli (il mio adorato Sbarbaro, invitato, non accettò). Vi rendete conto chi era in tv allora?

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