Cronache

Mani Pulite non è finita. Il manager Binasco si uccide dopo 26 anni

Aveva 73 anni, uscì indenne (ma segnato moralmente) dall'inchiesta di Tangentopoli

Mani Pulite non è finita. Il manager Binasco si uccide dopo 26 anni

Se una volta, una sola volta, l'inchiesta Mani Pulite arrivò a bussare alle porte di Botteghe Oscure, lo si dovette a lui: Bruno Binasco, uomo d'impresa tosto e pragmatico, che nelle maglie di Tangentopoli era rimasto invischiato per tutt'altri motivi, e che fu tra i pochi ad ammettere di avere pagato anche il Pci-Pds. Adesso, gli amici che lo hanno visto nei giorni scorsi dicevano che «sì, era un po' strano». Ma nulla faceva trapelare all'esterno che Binasco avesse deciso di farla finita. Invece ieri lo trovano impiccato sotto il portico della sua casa di Tortona, la cittadina in provincia di Alessandria dove era nato settantatrè anni fa, e da cui non si era mai staccato, neppure quando trattava faccia a faccia con i potenti di tutta Italia.

Con lui non se ne va nessun mistero, perché quello che aveva da dire Binasco lo aveva già detto senza reticenze, nelle diverse occasioni in cui le Procure di mezza Italia gli avevano puntato i fari addosso. Come spesso accadeva in quegli anni, alle manette di breve durata della Procura di Milano ne erano seguite altre, di pm epigoni qua e là per il paese, e spesso più brutali dei colleghi milanesi. A Binasco, come ad altri, era toccato farci il callo. Ogni tanto arrivava qualche altra Procura e lo incriminava. D'altronde il gruppo per cui lavorava, la Itinera di Marcellino Gavio, era un colosso attivo in tutta Italia: e metterla sotto accusa era diventato una specie di status symbol.

Binasco, anche in quelle circostanze si comportava con pragmatismo da manager: confessava quando c'era da confessare, senza immolarsi in carcerazioni interminabili; ma quando sapeva di poter dimostrare la propria innocenza si impuntava, si batteva e spesso ci riusciva. L'ultima ad incriminarlo era stata nel 2011 la Procura di Monza, e anche lì nel mirino c'erano i suoi rapporti con i postcomunisti: lo accusavano di avere fatto parte del «sistema Sesto», il circuito di imprese che avrebbe finanziato l'ex sindaco Filippo Penati e attraverso di lui il Pd. Binasco, come anche Penati, si proclamò innocente. Esito della vicenda: tutti assolti, sia in primo grado che in appello.

Quanto questi venticinque anni negli ingranaggi della giustizia lo avessero - dietro la robustezza apparente - segnato nell'animo, non lo si saprà mai, perché non pare che abbia lasciato messaggi di addio. Nove anni fa era morto Marcellino Gavio, l'imprenditore di cui era stato per decenni il manager più importante e fidato; lui, Binasco, era rimasto ancora un po' in Itinera. Poi si era dimesso e aveva preso in mano una piccola azienda di rimorchi e cisterne. Ieri, di buon'ora, ha deciso che non voleva più andare avanti. Quando, nell'estate del 1993, raccontò a Di Pietro di avere finanziato sottobanco il Pds attraverso Primo Greganti, forse sapeva di infilarsi in un guaio, e che trascinare nel gorgo di Mani Pulite anche il partitone di Achille Occhetto non sarebbe stato facile: e infatti nessun esponente di vertice della Quercia fu portato a processo.

Ma quando la Cassazione condannò Greganti a cinque mesi di carcere scrisse che Binasco non si era inventato nulla.

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