Politica

Quei 700mila italiani che vogliono restare

Camerieri o titolari di ristoranti stellati: ecco chi sono i connazionali nella City

Quei 700mila italiani che vogliono restare

In principio fu Little Italy. Oggi è una città nella città. Tanto che ormai, tra ragazzi, ci si scherza: chi non ha almeno un amico, un conoscente o un compagno di scuola che a un certo punto ha mollato tutto per andare a cercare lavoro a Londra? Anche Marco Gottardi e Gloria Trevisan si erano trasferiti nella City per quello: prima di perdere la vita nell'incendio della Grenfell Tower, il 14 giugno 2017, i due giovani veneti avevano trovato un impiego come architetti. Un flusso di connazionali che nemmeno la Brexit riesce ad arrestare.

Ufficialmente, oggi, nel Regno Unito risiedono 315mila italiani. Almeno questo è quanto emerge dai dati dell'Aire, l'Anagrafe per i residenti all'estero a cui si dovrebbe iscrivere chiunque abbia intenzione di trascorrere più di 12 mesi fuori dal Paese. Ma, come ha spiegato al Sole 24 Ore il console generale d'Italia a Londra, Massimilano Mazzanti, il numero degli italians che sono partiti per cercare fortuna in terra britannica sarebbe più che doppio: 700mila. Il punto è che non tutti si prendono la briga di iscriversi all'Aire, nonostante sia obbligatorio. La novità è che l'uscita del Regno Unito dall'Ue - che, accordo sì o accordo no, diventerà effettiva a marzo 2019 - non ha intimorito i nostri expats. Anzi, c'è stata la corsa a regolarizzare la propria posizione all'Anagrafe: se prima di Brexit si contavano 1.800 iscrizioni al mese, ora sono tra le 3mila e le 3.200. In totale nel 2016 sono stati quasi 25mila gli italiani inseriti nei registri dell'Aire come residenti in Gran Bretagna, un quinto di tutti quelli che si sono trasferiti fuori dalla Penisola, il 50% in più rispetto al 2015. Tanto che l'anno scorso il Regno Unito ha superato la Germania come meta preferita degli italiani (seguono Svizzera, Francia, Brasile e Usa).

Lo stereotipo vuole che i nostri connazionali migrati nella City siano impiegati perlopiù dietro i banconi dei pub e dei ristoranti di fascia medio-bassa. Non è un luogo comune: tanti italiani, spesso partiti subito dopo il diploma per migliorare il proprio inglese, si «accontentano» di fare i turni nelle grandi catene come Starbucks o Pret à Manger. Ma gli italiani sono anche ottavi nella classifica degli imprenditori stranieri attivi nel Regno Unito. Si è colorata di rosso-bianco-verde, ad esempio, Shoreditch, la versione londinese della Silicon valley statunitense. Una storia di successo in questo ambito è quella di Moneyfarm, startup di gestione finanziaria fondata 7 anni fa a Milano da Andrea Scarso, Giovanni Daprà e Paolo Galvani e poi trasferitasi a Londra. A fine maggio Moneyfarm ha ricevuto il maggior finanziamento di sempre nel settore del fintech italiano: 46 milioni di euro. Fondi che l'hanno proiettata nel parterre delle aziende innovative più finanziate di sempre in Europa.

E, tornando al food, gli italiani in Gran Bretagna non sono solo camerieri e lavapiatti, ma anche padroni di casa stellati. Giorgio Locatelli, originario della provincia di Varese, già uno dei cuochi «tricolori» più noti all'estero, dal 2002 è il patron della «Locanda Locatelli», una stella Michelin nel cuore della City. Ma gli chef italiani che hanno trovato successo Oltremanica non si contano, così come tante e diverse sono le loro storie. Roberto Costa, ad esempio, ha fatto il percorso inverso rispetto a quello di tutti gli emigranti: dopo la consacrazione del suo «Macellaio RC», che ha due sedi a Londra, ha aperto un ristorante omonimo a Milano. Lui è tornato in Italia per scelta.

La paura degli altri 699mila è di doverci tornare per forza.

Commenti