Cronache

Quegli intellettuali naufraghi muti nel mare del potere

C'è chi muore per fame e chi perché non sa più raccontare la realtà

Quegli intellettuali naufraghi muti nel mare del potere

«Dici:/ per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano (...) E il nemico ci sta innanzi più potente che mai./ Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso una apparenza invincibile./ E noi abbiamo commesso degli errori, non si può negarlo./ Siamo sempre di meno. Le nostre/ parole d'ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole/ le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili./ Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?/ Qualcosa o tutto? (...)».

CIto una poesia di Bertolt Brecht, e un'altra ne citerò poi, perché Brecht scrisse queste poesie in tempi sicuramente peggiori del nostro. Peggiori non per la coscienza personale, soprattutto degli intellettuali, che era cattiva come lo è quella odierna, ma perché la dittatura nazista poneva limiti all'espressione del pensiero ben più terribili di quelli odierni.

Eppure diversi intellettuali, amici miei, sembrano ritrovarsi oggi nelle stesse parole di Brecht: «Una parte delle nostre parole/ le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili». Lo ha detto, con altre parole, Mauro Covacich in un bell'articolo sul Corriere della Sera, lo ha detto il critico e storico dell'arte Tomaso Montanari, me lo ripete l'amico Sandro Veronesi. Queste e altre persone si riconoscono, tristemente, nell'osservazione di Mark Twain, secondo cui è inutile cercare di far cambiare idea col ragionamento a chi quell'idea se l'è fatta senza ragionare.

A dirlo non è gente esiliata, al confino o ridotta al samizdat. È gente con buoni contratti editoriali, buone collaborazioni con la stampa e la tv, ottimi rapporti con associazioni, festival, premi letterari quando non li dirige di persona. Insomma, gente tutt'altro che perseguitata, e che quasi certamente non lo sarà mai. Gente che sa con chi parla quando scaglia parole di sdegno, di furia, di sconforto.

Gente, però, con un problema di coscienza, che forse dev'essere chiarito.

Per tornare a Twain, qualcuno mi ha fatto osservare che il termine «ragionamento» è improprio. «Ragionare» è una parola d'ordine della sinistra moderata. L'errore, che può costare caro a tutti, sta nel disprezzo che si genera. Nel credere che a ragionare siamo soltanto «noi», gli «altri» no. La gente si è trasformata in folla e ragiona con la testa della folla. Una testa per tanti corpi: i social hanno preparato il terreno.

Temo che gli aspiranti tiranni, a meno che non siano degli idioti, prevedano questa posizione e la coltivino, per trasformarla in uno strumento di dominio. I fascismi non iniziano con le Marce su Roma, iniziano con l'Aventino. Esiste chi, cercando di mettere in salvo la propria parte «pura», dà luogo, fatalmente, all'effetto contrario. Freud insegna. La chiamano anche «eterogenesi dei fini».

Ricordiamo tutti quando, nel 1994, Berlusconi divenne premier per la prima volta. Gli intellettuali reagirono in massa, e lui cosa fece? Li lasciò a gestire il loro potere di minoranza - editoria, spettacolo, festival culturali ecc. - e comandò per vent'anni. In quei vent'anni cambiò il costume degli italiani, ad opera dei veri intellettuali, che senza darsi questo nome rivoltarono la società italiana. Un esempio: dal movimento femminista si passò a un'immagine della donna procace, col seno bene in mostra e tacco dodici.

Era ricominciata la tratta delle schiave ma intanto ci si scandalizzava del conflitto d'interessi (di cui non importava nulla a nessuno). Pensate che queste cose siano nate senza ragionamento? Senza intellettuali?

La verità è che per quasi vent'anni quelli che stavano dalla parte giusta preferirono gestire il proprio potere anziché prendersi dei rischi. Il potere è una cosa seria. Ne abbiamo avuto tanti esempi. Dove sono le famose voci «fuori dal coro»? Ma il linguaggio di Salvini e di altri non è senza ragionamento: come nella pubblicità, il ragionamento (spesso molto sofisticato) è stato cancellato e sostituito da un linguaggio molto narrativo fatto di dichiarazioni, immagini, filmati, scene di vita quotidiana, fotografie ufficiali. È il linguaggio del potere: di chi lo detiene e di chi appartiene alla sua sfera.

Un amico mi fa osservare che Rutelli tolse voti a Berlusconi perché accettò di mettersi al suo livello. Non contestò le sue parole con ragionamenti, ma con smorfie, risatine, sfottò. Aveva combattuto il linguaggio non con il ragionamento, ma con un linguaggio speculare. Come avviene nella pubblicità, dove vince lo spot migliore. Ma val la pena di ricordare, a questo proposito, che da molti anni lo spot vincente è quello che contiene più narrazione. Salvini racconta e «si» racconta, e poco importa se quello che racconta è vero o no (la chiamano post-verità, se non sbaglio). Il problema è che Martina non lo fa, che Calenda non lo fa, anche se ragionano bene.

Ci piace il racconto di Salvini? Nel mese di giugno quasi 650 persone che potevano essere salvate sono morte per mare. Il racconto di Salvini dice pressappoco: mi dispiace per quella gente ma la colpa non è certo mia. Molti gli credono, e tra coloro che gli credono c'è tanta brava gente, e magari qualcuno di loro legge anche i libri. Tanta brava gente, di cui ormai non parla quasi più nessuno.

Allora il problema è: in quale contesto ci troviamo? In quale romanzo? In quale scenario? Perché è facile pensare di trovarsi da una parte ed essere, invece, dall'altra. Possiamo essere inquieti, incerti, dubbiosi, tormentati, ma dobbiamo sapere dove ci troviamo. Non possiamo più combattere battaglie di retroguardia.

I morti per mare, preceduti da altri morti, milioni e miliardi, su su, fino ai primordi della storia, sono lo scandalo degli intellettuali, che scrivono i loro romanzi d'amore e i loro saggi sull'economia mentre chi muore lancia il suo grido silenzioso, inascoltato. Gli intellettuali, da che mondo è mondo, soffrono per i diseredati ma non sono essi stessi dei diseredati: stanno bene.

Parlo anche per me, certo. Nel tempo della fame non avrebbero il diritto di mangiare e bere, però - come dice Brecht - mangiano e bevono. Qualcuno di loro allarga le braccia, chiede perdono o quantomeno un po' di compassione. In altri prevale la rabbia, il senso di impotenza, e provano ribrezzo per le parole che hanno dato loro da mangiare e bere.

Si può capire. Ma, così facendo, noi veniamo meno al nostro compito, che è quello di testimoniare attraverso il nostro racconto lucido, consapevole, quella cosa difficile, terribilmente ardua che si chiama realtà. Se necessario ritiriamoci su una montagna, su un'isola deserta, in mezzo ai Tuareg, se questo ci aiuta a penetrare meglio il mondo che dobbiamo raccontare, scriviamo filastrocche anziché romanzi, ma guai a dismettere la parola. Pensiamo a Osip Mandel'stam, il più grande poeta del Novecento, che a Voronez componeva le poesie dentro di sé, sillaba dopo sillaba, e anziché scriverle su carta le affidava alla moglie, affinché - un giorno, chissà - potessero giungere anche a noi. Come è successo.

Anche se il mondo muore intorno a noi e le nostre parole si sono ridotte a un balbettio d'orrore (perché talora l'intelligenza si riduce a questo), il nostro compito principale è quello di stare al nostro posto fino alla fine. La nostra piccola voce non può alzarsi contro tutte le ingiustizie, però può testimoniare un modo più umano di guardare i nostri figli, un albero, una sera, e di questo qualcuno serberà memoria.

Lo dice bene ancora Bertolt Brecht, che tutto fu fuorché un uomo di centrodestra:

«Non si dirà: quando il noce si scuoteva nel vento/ ma: quando l'Imbianchino calpestava i lavoratori./ Non si dirà: quando il bambino faceva saltare il ciottolo piatto sulla rapida del fiume/ ma: quando si preparavano le grandi guerre./ Non si dirà: quando la donna entrò nella stanza/ ma: quando le grandi potenze si allearono contro i lavoratori.

/ Tuttavia non si dirà: i tempi erano oscuri/ ma: perché i loro poeti hanno taciuto?».

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