Cultura e Spettacoli

Sergej Lebedev oltre "Il confine dell'oblio" trova la memoria inconfessabile di un gulag

Scavando nell'eredità del «nonno», un uomo scopre il suo passato agghiacciante

Sergej Lebedev oltre "Il confine dell'oblio" trova la memoria inconfessabile di un gulag

Il bambino lo chiama «Nonno Due» perché entrambi i suoi nonni «uno», il materno e il paterno, sono morti nella Seconda guerra mondiale. Ma anche Nonno Due gli ha dato la vita. E non una, bensì due volte. La prima, rassicurando la sua mamma (il cui parto, dicevano i medici, era rischioso) e il suo papà (che non voleva correre il rischio), convincendoli a farlo nascere, quel piccolo progetto di uomo. La seconda donandogli il proprio sangue quando, assalito e morso da un cane randagio, il bimbo ne aveva perso troppo ed era sul punto di morire. A soli dieci anni, in quel 1991 che stava segnando la fine della perestrojka, colpo di coda dell'Unione Sovietica. Eppure «era impossibile amare Nonno Due!».

Ci mette anche un punto esclamativo, Sergej Lebedev, forse l'unico di tutto il libro, a questa affermazione, per sottolineare come nel protagonista della storia da lui, Lebedev, narrata usando l'«io» i sentimenti nei confronti di Nonno Due non potevano essere quelli di un nipotino naturale. Non è la cecità del vecchio a frenare il bambino, che anzi fa all'altro volentieri da guida nelle passeggiate fra le dacie e nei boschi circostanti, bensì il suo tratto autoritario, tipico di chi è abituato a comandare, e insieme il profondo egoismo che (ma questo il bambino lo capirà più tardi, da adulto) è causa ed effetto della vigliaccheria.

Inizia così, con un sottile duello emotivo che contrappone la riservatezza e l'aura di mistero che avvolge l'anziano al presentimento di pregresse sventure del giovanissimo, il percorso di Lebedev verso Il confine dell'oblio (Keller, pagg. 355, euro 18,50, traduzione di Rosa Mauro). Il romanzo è una discesa negli inferi del mondo sovietico. Discesa nel senso di affondamento nei tormenti dell'anima e anche nel senso fisico, materiale, di scavo, poiché l'itinerario nei giacimenti dei ricordi propri e altrui viene compiuto, dal bambino divenuto ormai trentenne geologo, proprio sotto terra. Sono memorie dal sottosuolo quelle con cui, come Dostoevskij, l'autore si sporca le mani, scoperchiando il verminaio delle colpe e degli orrori, della bestialità umana e della glaciale, meccanica pervasività del potere. Perché sì, non sbagliava quel bambino, in merito a Nonno Due. Quando il vegliardo, prosciugato dalla donazione del sangue e forse anche dal calore insopportabile del senso di colpa, muore, lascia in eredità alla sua domestica sia la dacia, sia l'appartamento in città. Ma quando anch'essa se ne va, portandosi nella tomba i pochi segreti che era riuscita a carpire a Nonno Due, tutto passa al Nostro narratore-protagonista.

Scegliendo un livello basico di lettura, potremmo collocarci in panciolle di fronte a un giallo, poiché i memorabilia che lui scova nei cassetti del vecchio (denti, pupazzetti di legno, ritagli di giornale...) sono tutti indizi di una non ben definita colpevolezza. Ma non porterebbero a nulla, non risolverebbero il «caso» Nonno Due se non fossero accompagnati da alcune lettere dell'unico suo corrispondente, chiaramente un vecchio amico che parla di caccia all'orso e alla foca. Dunque, rintracciare il mittente è il solo modo per togliere il velo al passato del vecchio. Così avviene, ma dal giallo si passa al color ruggine delle baracche nel profondo Nord, al cielo scuro e pesante anche d'estate, al nero dei pozzi di trivellazione da dove si estraggono metalli preziosi e mortali. Lì oggi (un oggi che è quasi il nostro, visto che il libro è del 2011 e il Nostro narratore-protagonista ha, guarda caso, proprio 37 anni) si sprofonda in cerca di ricchezza, mentre sette, sei decenni prima...

Sette, sei decenni prima quella cittadina anonima che porta un nome qualsiasi di un eroe sovietico non esisteva. Al suo posto c'era un lager. E il direttore del lager chi poteva essere, se non il futuro Nonno Due? Le tappe di avvicinamento alla meta, al confine dell'oblio che Lebedev in prima persona vuole varcare, hanno la potenza claustrofobica e concentrazionaria dei campi destinati a un'impossibile rieducazione. Qui l'autore, usando la benna poderosa che scoperchia tane, sepolture, eccidi, oppure la piccola zappa dell'ostinazione e del senso di giustizia che estrae reperti da consegnare al tribunale della storia, arriva al nucleo della vergogna originaria.

Al sovietismo come arma di distruzione di massa.

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