Cultura e Spettacoli

"Papà e mamma dipingevano. Quindi c'era qualcosa nell'aria..."

Pubblichiamo, per gentile concessione di Arthemista Books, editore del catalogo della mostra "Eeasy Rider.Il mito della motocicletta come arte" in corso a Venaria Reale, un brano dell'intervista fatta da Tim Marlow, direttore della Royal Academy of Arts di Londra, a Paul Simonon, ex bassista del gruppo The Clash.

"Papà e mamma dipingevano. Quindi c'era qualcosa nell'aria..."

Pensi che questi dipinti possano essere considerati espressioni di classe? Forse esiste una certa tradizione nell'estetica della classe operaia in ambito pittorico, ma dal contesto specifico in cui i tuoi lavori vengono realizzati emerge qualcosa di molto più personale al riguardo. Si tratta di opere capaci di aprire un discorso sulla cultura nel tempo; sono dipinti contemporanei, ma volgono lo sguardo agli anni Settanta, Sessanta, Cinquanta.

«Sì, sebbene non stia cercando di veicolare nessun messaggio di ribellione o roba simile. Mi sono limitato a raffigurare qualcosa di cui facevo - o faccio tutt'ora - parte in vari modi... oltre a essere un soggetto che mi interessava dipingere».

Si potrebbe pensare, e non intendo dire che sia necessariamente questo il caso... ma la giacca di pelle, la moto... siano simboli che per alcune persone rappresentano cliché culturali. C'è una critica dietro a questo?

«Ne sono consapevole ma dipende tutto dal risultato finale dell'opera. Capisco il tuo punto di vista ma quando termino un lavoro, se viene bene, spero che contenga significati un po' più profondi di un semplice riferimento alla cultura popolare. La mia speranza è che abbia più a che fare con la pittura stessa».

In un tuo dipinto c'è una chitarra - si tratta di un'opera piuttosto buia. In un certo senso questo elemento è messo in risalto ma fa anche parte dello sfondo anche qui insieme a un senso di oscurità. Ovviamente il pubblico che osserva le tue opere, che tu lo voglia o no, lo fa con strumenti che tengono in considerazione anche la tua carriera di musicista. La chitarra in questo caso strizza l'occhio in quella direzione?

«Sì, è il mio modo di ammettere che esiste una connessione. Mi rendo conto che da questo non ci si possa nascondere. L'idea che il pubblico potesse pensare: Oh, sì, Paul Simonon... l'ennesimo musicista che si è dato alla pittura mi faceva diventare matto, ma ci ho fatto il callo. Penso che il punto sia la qualità dei miei dipinti. Ecco di cosa si tratta. Riescono a farsi valere? Mi importa solo di questo».

Riuscivi a dipingere regolarmente quando facevi parte dei Clash?

«No. Mi dedicavo completamente alla rappresentazione estetica della band».

Intendi il modo in cui vi vestivate?

«Sì. Anche i dettagli come la sigaretta dietro l'orecchio... dettagli di questo tipo che, in un certo senso, richiamavano lo stile dei mod. Bernie Rhodes, il nostro manager, aveva assistito alla nascita di quel movimento. Mi disse: Ti conosco, Paul, so come sei fatto: per te conta solo il risvolto dei pantaloni e cose del genere, e aveva ragione, perché vengo dal periodo mod e da quello degli skinhead. Avevo all'incirca tredici anni quando la moda skin esplose nel Regno Unito. Le dimensioni del risvolto e simili dettagli erano davvero importanti, ed è proprio questo genere di cose che ho portato nei Clash, insieme a un lato più artistico che si sviluppava attraverso attività come dipingere gli abiti che indossavamo».

Le ricerche e i discorsi sull'estetica ti sono sempre interessati?

«Era il mio lavoro nei Clash».

Hai dovuto metterlo in prospettiva o ne sei stato subito consapevole? È una cosa che hai visto nascere dal tuo interesse per il disegno e la pittura?

«No. All'epoca stavo imparando a suonare il basso che non avevo mai suonato prima di allora. In un certo senso, credo sia stata colpa di Mick Jones: si potrebbe dire che era stato incoraggiato da Bernie Rhodes perché a lui piaceva l'idea di mescolare musicisti a dilettanti. Mick era pienamente consapevole della sua storia musicale e sapeva che, all'inizio, i Beatles lavoravano con un tipo che si chiamava Stuart Sutcliffe. Mick mi disse: Non sapeva suonare il basso, come te. Ed era un bravo pittore, proprio come te. Quindi sì: dovremmo mettere su una band. In un certo senso, quello era il mio ruolo all'interno del gruppo: l'artista, l'esteta».

Ti sei avvicinato alla pittura da autodidatta?

«Diciamo di sì. Mio padre era un pittore dilettante, quindi c'era qualcosa nell'aria... e anche mia madre dipingeva quando non era al lavoro. E poi c'era un amico di mio padre... un tipo chiamato Geoff Holt che dipingeva con uno stile quasi rinascimentale. Una volta rappresentò un cacciatore che sembrava appartenere alla tradizione pittorica tedesca, con uno stile simile a quello di Cranach. E una donna. E una volpe. Un giorno mi disse che doveva andare al doposcuola su Droop Street, nei pressi di Harrow Road. Era una zona un po' malfamata. Andavo spesso con lui per dare una mano. A volte mi diceva cose tipo: Paul, vuoi finire la volpe al posto mio?, e io prendevo il pennello e finivo il manto della volpe, solo il primo strato, e poi ci dipingevo sopra. Ho imparato semplicemente dipingendo - per strada con ogni condizione atmosferica, come pure all'interno. Sì, credo sia così che è successo: provando e sbagliando».

Negli anni in cui hai detto che non avevi tempo di dipingere, disegnavi comunque quando eri in tour? Ti portavi spesso dietro un taccuino per gli schizzi?

«No».

E da cosa pensi dipendesse?

«La situazione con i Clash era troppo intensa e non lasciava spazio a nient'altro. Tutto ruotava esclusivamente intorno alla band. Era uno stile di vita, un atteggiamento. Esisteva solo il gruppo».

Intendi dire che era difficile fisicamente anche per l'abuso di alcol e droghe?

«A dire il vero no. Eravamo solo ossessionati dal nostro lavoro, per così dire. Ogni cosa riguardava il gruppo. Tutti noi, manager compreso, venivamo da situazioni familiari difficili perciò ritrovarci insieme aveva significato avere improvvisamente una famiglia. Ovviamente all'inizio la situazione era piuttosto estrema. Volavano bottiglie. Era decisamente pericoloso, allora.

È come una di quelle uscite di lavoro che uniscono i colleghi, ma è stato un po' più estremo di una partita di golf o altro».

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