Economia

Il manager in pullover che ha sganciato la Fiat dalla politica italiana

Con Chrysler Marchionne ha reso Fca una big mondiale. Cambiando tutto con i sindacati e con Confindustria

Il manager in pullover che ha sganciato la Fiat dalla politica italiana

Sergio Marchionne, 66 anni compiuti il 17 giugno, approda in Fca nel 2004 all'indomani della scomparsa di Umberto Agnelli, il quale lo aveva segnalato a Gianluigi Gabetti, uomo di fiducia dell'Avvocato e custode delle «casseforti» di famiglia. Le referenze sulle sue capacità (all'epoca era a capo della svizzera Sgs, controllata del gruppo Agnelli, nonché consigliere indipendente del cda di Fiat) non ammettevano dubbi: era il manager ideale per traghettare il Lingotto - orfano da poco anche della sua figura più carismatica, Gianni Agnelli - dalle secche della crisi a un nuovo futuro.

Marchionne è sconosciuto ai più: a presentarlo alla stampa e al mercato è il presidente di Fiat, fresco di nomina, Luca Cordero di Montezemolo, che unisce il delicato incarico a quello di numero uno di Confindustria. Al suo fianco c'è il neo vicepresidente John Elkann, in quei tempi un giovane preparato ma molto timido, e oggi a capo dell'impero industriale e finanziario di famiglia.

Dal 2004 a oggi, Marchionne non ha solo salvato il Gruppo Fiat dal fallimento, ma è riuscito a condurlo alla ribalta mondiale, soprattutto per il modo con il quale è riuscito a scalare con successo l'americana Chrysler, che ha portata alla nascita dell'attuale Fca (Fiat Chrysler Automobiles). Un risultato ottenuto nel momento più buio dell'economia americana dopo la crisi del '29, una scommessa vinta addirittura con l'allora inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, ma anche con il non facile fronte sindacale rappresentato dal potente (in quegli anni) Uaw. Senza quel colpo, dopo il fallito assalto alla tedesca Opel, probabilmente il Gruppo Fiat sarebbe stato oggetto di uno spezzatino e fagocitato da altri.

Ma il blitz su Chrysler (il denaro ottenuto in prestito dall'Amministrazione americana per concludere l'operazione è stato restituito in largo anticipo) non è l'unico che ha fatto di Marchionne uno dei manager più importanti (e più ricchi) nel mondo.

A passare alla storia, infatti, resta il modo con il quale l'ad di Fiat è riuscito a farsi consegnare dal colosso General Motors un assegno di 2 miliardi di dollari per consentire al gruppo di Detroit di non accollarsi il destino del Lingotto, in virtù della put option che faceva parte del matrimonio italo-americano poi naufragato. E grazie a quei 2 miliardi di dollari (l'opzione put gli era stata messa su un piatto d'argento dall'ex presidente Paolo Fresco), la Fiat ha cominciato il percorso verso la rinascita.

La mossa vincente con Gm, subito dopo sprofondata in una pesantissima crisi, fa capire all'opinione pubblica e al mercato, che il gruppo torinese, fino a pochi anni prima abituato a passare da un amministratore delegato all'altro, aveva trovato un manager dalle rare capacità e con una preparazione globale. Insomma, un abile giocatore di poker (come del resto è nella realtà) in grado di sorprendere sempre gli avversari.

Marchionne ha trovato un modo singolare e molto personale per dimostrare che il Lingotto aveva voltato pagina, rispetto a una Fiat legata a doppio filo con la politica e capace di condizionarne le scelte in campo economico. «Il mio rapporto con la politica? Rimaniamo filo-governativi», la stessa risposta a ogni cambio della guardia a Palazzo Chigi.

Per rompere con il passato, l'ad inaugura così un nuovo look: quello di indossare in tutte le occasioni («visto che trascorro buona parte della vita in volo», facendo la spola fra Torino e gli Stati Uniti) un pullover nero, salvo qualche rarissimo caso dove l'etichetta impone la giacca e la cravatta. Un modo per distinguersi, imitato negli anni da altri manager, banchieri, imprenditori e politici, attraverso il quale ha inteso anche sfatare il detto che «a parole, noi italiani, vogliamo che tutto cambi, ma solo perché tutto rimanga com'è». E in questo senso è da interpretare anche lo «strappo» da Confindustria, e da tutti i lacci e lacciuoli che ne derivano, allo scopo di aver mano libera nella contrattazione con i sindacati. Una mossa che ha permesso il mantenimento in Italia e lo sviluppo degli stabilimenti del gruppo (a essere sacrificato è stato solo l'impianto siciliano di Termini Imerese).

Tanti «alti», dunque (la capitalizzazione del gruppo è salita in tutto a 60 miliardi; il valore del Lingotto è sestuplicato; il debito netto azzerato); e poi la Ferrari, che Marchionne insieme alla controllante Exor ha portato in Borsa: il valore del titolo è quasi triplicato.

Ma anche alcuni «bassi». Tra questi, oltre alla porta in faccia ricevuta da parte del governo tedesco a proposito della volontà di acquisire Opel; il secco no della tenace Mary Barra, presidente e ceo di Gm, a unire il colosso di Detroit con Fca; le difficoltà a trovare nuovi partner con i quali condividere i forti investimenti imposti dalle nuove norme; la poca lungimiranza a interpretare la svolta del mercato verso l'elettrificazione dei veicoli, con la conseguente rincorsa in atto; i ritardi in alcuni lanci chiave della gamma Alfa Romeo, e non solo quella. «Di errori ne ho commessi...», ha ammesso a lo stesso Marchionne. Resta il fatto che senza un manager come l'attuale ad di Fca, l'Italia avrebbe rischiato di perdere uno dei suoi storici gioielli dell'industria.

Di lavoro, Marchionne, ne ha dato tanto anche a giornalisti e scrittori che, su di lui, hanno scritto numerosi libri. Alcuni titoli: La strategia del maglione; Chi comanda è solo. Sergio Marchionne in parole sue; Parola di Marchionne; Sergio Marchionne dalla A alla Z; Sergio l'americano; Marchionne: l'uomo che comprò la Chrysler; Officina Italia. La Fiat secondo Marchionne. Mai nessuno, però, si sarebbe aspettato un'uscita di scena (avrebbe lasciato Fca il prossimo aprile) così improvvisa e drammatica.

Il volto umano di un grande e unico manager.

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