Cultura e Spettacoli

Distacco millenario e rancori violenti: l’anima della Sicilia

Leonardo Sciascia racconta il paesino vicino a Piazza Armerina e immerso in un paesaggio immobile e crudo

Distacco millenario e rancori violenti: l’anima della Sicilia

Eccolo qui, Mazzarino: in alto, col suo nuovo ospedale e il suo vecchio castello in rovina, le sue vecchie case: sul taglio della collina, circondato da quel verde che fa oasi intorno ai paesi siciliani lontani dalla costa. La rete ferroviaria non èmai arrivatafin qui, e noi ci siamo arrivati in macchina da Caltanissetta, dopo quarantatré chilometri di strada tutta curve e controcurve. Il paese è collegato al capoluogo da tre corse, tre di andata e tre di ritorno, di autobus. Unautobusfa servizio di andata e ritorno per Palermo e un altro per Caltagirone e Catania. Un paese della solita e statica vecchia Sicilia; con una lunga via che spacca in due l’abitato. Il corso a un certo punto tocca una piazza dove c’è il municipio che è allogato in un vecchio convento, poi prosegue per raggiungere la casa dei baroni Bartoli. Ci sono venti chiese (ma soltanto una decina sono aperte al culto), e parecchi circoli. Le abitazioni sono per lo più misere; ce ne siamo resi conto specialmente percorrendola via che scendeal desolato convento dei frati cappuccini, fra case con le stanze a pianterreno invase da letti, bambini, galline e capre. A Mazzarino hanno agenzie la Cassa diRisparmio Vittorio Emanuele eilBanco di Sicilia; e c’è pure una locale Cassa Agraria di Credito. Ciò non toglie che l’usura, come del resto in quasi tutti i paesi agricoli della Sicilia, vi prosperi. Tranne la chiesa madre, con la sua grandiosa facciata, il collegio dei Gesuiti e i resti dei palazzi Branciforti ed Alberti,Mazzarino non ha poimolte vestigia del passato che siano degne di attenzione. L’elegante teatro che don Carlo Carafainaugurò nel 1694, è stato trasformato in cinema. L’unico cinema del paese (d’estate si apre anche un’arena) l’unico svago che questa popolazione si offre.C’è, naturalmente,anchela televisione; ma soltanto nelle case «borghesi» e nei circoli. Le radio sonoinvece più numerose, entrano anche nelle case dei contadini. Mazzarino, Mactorium in Erodoto, Macharina in Tolomeo, Macherenis agerin Cicerone. Non c’è paese in Sicilia che non riesca a ritrovare greci e romani alle proprie origini, alla propria identità. Ma di Mazzarino, nel De rebus siculis, il Fazello polemicamente affermava: «È di recente fondazione, e solo in questi ultimi anni è stato elevato a contea: coloro che identificano in esso l’antica Mactorium sono del tutto privi di senno». Opinione che due secoli dopo l’abate Vito Amico riprovava come «incongruente», senza peraltro avere in mano argomenti validi a contrastarla. Ci sono dei galantuomini che si sentono sminuiti a sapere che i loro luoghi non videro l’ombra di un greco o di un romano. Siamo certi, per esempio, che il sospetto di una Mazzarino non greca, non romana, avrebbe scandalizzato quel Biagio Natoli che nel consiglio comunale,il 21 gennaio del 1894, constatava che «le ingenti spese per la pubblica istruzione obbligatoria non hanno dato gli speratifrutti, anzi ne hanno dato tanti contrari e nell’ordine intellettuale e nell’ordinemorale» (alludeva,evidentemente, ai Fasci dei lavoratori) e calorosamente si augurava che non si andasse «più oltre assolutamente nelle spese perla pubblicaistruzione» e che addirittura il governo abolisse l’istruzione obbligatoria. E avrebbe scandalizzato quei consiglieri suoi colleghi che «plaudendo alle idee manifestate dal prelodato consigliere Natoli» davano mandato alla presidenza «di rassegnare al governo del re le proposte»: e intanto, a non perder tempo in attesa dei provvedimenti governativi, davano disdetta a setteinsegnanti e sopprimevano altrettante classi. I greci, i romani; ma abbasso l’istruzione obbligatoria. Un’origine araba, quale in effetti è proposta dal nome, dà fastidio quasi quanto l’istruzione obbligatoria. In ciò la classe civile siciliana si è generalmente trovata d’accordo col fascismo: che non ha soppresso, è vero, le scuole; ma di nomi arabi qualcuno ne ha cambiato. E col tempo, chi sa, Mazzarino poteva anche prendere da Erodoto o da Cicerone più condecente nome. Curioso è che non un erudito della classe civile, ma un bidello delle scuole elementari ha scritto la storia di Mazzarino: certo Giorgio Ingala. Naturalmente ci sono dentro i greci, i romani. Alla Mazzarino sacra ha invece prevalentemente dedicato le sue ricerche un altro erudito:il Russo Farraggia. Nel suolibro èlaleggenda dell’«invenzione» di un dipinto su tavola raffigurante la Madonna delle Grazie, cui Mazzarino dedica la sua grande festa. La riporta il Pitré nel volume sullefeste popolari siciliane: «In un bosco, dove ora trovasi l’odierno Mazzarino, l’anno 1125 di nostra era, pascolandovi un gregge di porci, uno di questi animali si allontanava sovente e si portava in un punto estremo del medesimoa procacciarsiil nutrimento scavando col grugno la terra. L’animale ripetendo per giorni l’allontanarsi ed il recarsi in quel dato punto, eccitò la curiosità del custode del gregge, che, recatosi in quel punto, con sua sorpresa osservò un buco nel suolo che a sotterraneo guidava. Egli ne scava la rimanente terra e scende in quella caverna. Grande dovetteesserela dilui sorpresa quando osservò unalampada accesainnanzi la sacraimmagine, nientelogora emacchiata dall’umido...».Ma lafesta, secondo il Pitré, ricca e tumultuosa come tutte le feste patronali siciliane, non presenta caratteri originali. Più originale è senza dubbio quanto di recente è accaduto a Mazzarino. Ma non staremo qui a rifarne la cronaca e a commentarnel’esito giudiziario. Piùinteressante sarebbe cercarne le ragioni nella storia del paese, nella sua struttura sociale. Mazzarino è stato, fino a pochianniaddietro, paese di chiusafeudalità. Ancora nel 1956, sui 29mila ettari del territorio comunale, circa 20mila erano proprietà dì pochefamiglie:i Bartoli,i Lanza diTrabia,iCannada,i Trigona, gli Alberti, i Guccione, i Gallo. La famiglia Bartoli, in particolare, poteva essere considerata, e si considerava, padrona dell’intero paese. Nella signoria di questa terra erano praticamente venuti a raccogliere la successione dei Branciforti, dei Carafa: avevano fermato a Mazzarino quel processo di formazione della piccola e media proprietà, quella prima disgregazione del feudo che nella Sicilia della seconda metà del Settecento veniva realizzandosi nelle forme dell’enfiteusi, del cosiddetto censo. L’unità d’Italia non scalfìil loro potere. I vent’anni delfascismo perMazzarino sono stati semplicemente quelli di un Bartoli podestà. Quando un Bartoli moriva, tagli di stoffa nera venivano distribuiti: e il popolo prendeva il lutto. Esercitavano in pratica il «mero e misto imperio» che altrove si era effettivamente dissolto nei nuovi ordinamenti, nei nuovi rapporti. Esplosioni di rivolta contro un tale stato si verificarono a Mazzarino nell’aprile del 1848, allorché la notizia dì una rivoluzione nelle grandi città siciliane trovòimazzarinesi «disposti aincredibili malumori»: e si impadronirono delle armi della guardia nazionale, e incendiarono case, e uccisero notabili, rinnovando, scrive lo storico locale, «la scena dei famosi vespri»; e poi nel 1944. In un articolo di Giuseppe Cardaci su Mazzarino si legge: «Dopo anni ed anni di oppressione, di sofferenze, di umiliazioni, nel dicembre 1944 scoppiò l’ira popolare di fronte all’ultima provocazione dei fascistilocali e dei Bartoli,i quali, apparsi i manifesti per la chiamata alle armi della guerra di liberazione, speravano che fosse quella l’occasione buona per lanciare il popolo contro la Camera del Lavoro, controle sedi del partito socialista. Nelle case, alla vigilia di Natale, non c’era un chilo di farina, non una bottiglia d’olio che i signori vendevano a 400 lire al litro. Perciò la folla riversatasi per le strade, non contro il Partito comunista era esasperata, ma contro gli agrari, i fascisti, gli affamatori. Il torrente nero del popolo si diresse contro i palazzi degli agrari e dei baroni, quegli stessi personaggi che per anni e anni avevano spadroneggiato. La notte fu arrossata di fiamme, e tra scoppi ed esplosioni di bombe, qualche nobile fu costretto a ballare attorno ai falò delle masserizie». I soliti, atroci avvenimenti delle rivolte municipali siciliane: giornate in cui si sfogano rancori secolari ed immediati, si consumano vendette personali e di classe, ci si abbandona alle più grottesche crudeltà, ai più feroci capricci: e poi arrivano i garibaldini a fucilare, il regio esercito a mitragliare, a ripulire; e «tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace...»: sempre ad un modo, come nella stupenda novella di Verga che s’intitola Libertà. E dopo i fatti del 1944 anche i mazzarinesi fecero pace coi galantuomini che avevano costretto a far la danza intorno ai falò. Con le elezioni amministrative del ’45 li portarono di nuovo in municipio: e i galantuomini continuarono ad amministrare la cosa pubblica come per secoli avevano fatto. Nel 1952, quando la lista composta di giovani intellettuali e di lavoratori, ebbe la meglio su quella dei galantuomini, si trovò che nel bilancio della scaduta amministrazione le preoccupazioni scolastiche non erano granché avanzate rispetto a quelle del consigliere Natoli: c’erano soltanto nove aule propriamente scolastiche per 2.534 bambini in obbligo di frequentare la scuola; altri locali scolastici erano presso case private. Il contributo che il Comune dava al Patronato scolastico assommava a 36mila lire. La nuova amministrazione portò a 500mila lire le 36mila della precedente: ma al prefetto parvero molte, le ridusse a 300mila. Altro da fare la nuova amministrazione ebbe a ridimensionare le imposte, a rovesciare il curioso rapporto per cui le famiglie che possedevano i due terzi del territorio venivano a pagare, insieme, circa due milioni per l’imposta di famiglia; mentre nove milioni li pagavano gli altri cittadini. Della posizione dei galantuomini, dei notabili, naturalmente partecipava il clero, a Mazzarino numerosissimo: già nel 1480 vi si erano stabiliti i domenicani; poi, nel 1573, i minori osservanti; e l’anno appresso, i cappuccini; e poi ancora i minori riformati. Alla fine del Seicento, chiamati da Carlo Carafa, i gesuiti. Nella seconda metà del ’700 sorge una comunità di monache che professano la regola di san Benedetto; e probabilmente c’erano già le monache di santa Lucia. E c’erano anche i carmelitani. E c’era, un po’ fuori del paese, una casa d’eremiti. Ad aggiungere il clero secolare, si ha una visione degna del pennello di Nino Caffè: tutta una fantasia, un volo, un’apoteosi di preti, monaci, monache, gesuiti, romiti vestiti d’ogni colore e d’ogni foggia. E al centro di questa apoteosi don Carlo Carafa Branciforti, marchese di Mazzarino, principe di Butera, di Roccella e del Sacro Romano Impero: alla cui devozione il paese in gran parte deve tanto decoro. Don Carlo Carafa era una specie di grafomane: mistico, edificante scrittore; ma piuttosto abbonante. Chiamò da Trapani a Mazzarino lo stampatore Giuseppe la Barbera: e i torchi, è il caso di dire, gemettero dei pensieri cristiani, delle istruzioni cristiane, delle confutazioni cristiane di don Carlo Carafa. Il primo libro, Istruttione Cristiana per i Principi e Regnanti, uscì nel 1687. Poi venne fuori L’Idiota, opera edificante tradotta dal francese; poi l’Hebdomada Mariana. Ad un certo punto troviamo al posto del La Barbera un altro stampatore: Giovanni van Berge, «fiamengo». E il principe gli fa stampare opere «politiche-cristiane», tra cui unoScrutinio politico contro la falsa ragion di Stato di Nicola Machiavelli. È notevole, comunque, che alla fine del Seicento Mazzarino sia stato uno dei pochi luoghi di stampa della Sicilia: anche se solo per il capriccio di un nobile, senza effettiva comunicazione con l’ambiente, senza alcun rapporto con la realtà del paese. Tutto sommato, don Carlo Carafa si dedicava ad un’attività che non era mai stata, né mai sarebbe stata dopo di lui, tra le predette dai nobili e dal clero. L’inutilità di sapere del resto è ancora oggi rappresentata dal numero dei quotidiani che si vendono ogni mattino: un’ottantina in tutto. A giudizio di qualcuno Mazzarino rivela invece nel costume l’incidenza di un così gran numero di religiosi e dell’esercizio di medioevali prerogative da parte dei nobili: nel senso di una certa rilassatezza, di una certa libertà. E i paesi vicini ne fanno accusa, denigrazione. Un’eco di questa denigrazione è nei Mimi di Francesco Lanza: dove il mazzarinese è rappresentato come un semplicione, un ingenuo riguardo alle coniugali disavventure; e tanto avaro da fiatare dentro un sacco, a serbare il fiato per il bisogno. In verità sono, in questi Mimi mazzarinesi del Lanza, i caratteri tipici di un mondo contadino esasperati nel comico della denigrazione campanilistica, che in Sicilia è vivissima. Può darsi che i mazzarinesi egualimimi attribuiscono agli abitanti dei vicini paesi di Pietraperzia e Piazza Armerina. Da Piazza Armerina, Mazzarino dista ventiquattro chilometri di strada buona, vale a dire asfaltata e non del tutto trascurata in quanto a riparazioni e a rattoppi; per strada a trazzera, la distanza è minore. Si può dire che basta svoltare una collina per trovarsi dentro un paesaggio diverso: e si ha la sensazione di essere in prossimità di un confine, di una frontiera «continentale». Gli alberi di bellu vidiri, come i contadini con sprezzo chiamano tutti gli alberi che non danno frutto (e così sono chiamati anche i giovani di una certa prestanza ma scioperati), cominciano ad infittirsi. Ad un crocevia c’è uno di quei Crocifissi, di legno in cui ci si imbatte nelle strade alpine. Le case hanno un’aria lombarda, se non addirittura svizzera. I contrasti della terra siciliana si attenuano, il verde assume una graduazione che va, come giustamente dice un poeta di Piazza, dal verde-azzolo, cioè quasi azzurro, al verde di curina, cioè di grumolo: tenue e tenero, quasi giallo; ma di un giallo acquoso, fresco. E poi vi si apre davanti la valle in cui è la famosa Villa romana, al centro di una corona di colline coperte dal muschioso verde dei noccioleti: e le ragazze in bikini dei mosaici sembrano danzare nell’essenza stessa del paesaggio, nel suono dell’acqua, nel verde. Ma che riprendiate la strada per Gela o, come noi, quella per ritornare a Mazzarino, e poi a Caltanissetta, ecco che siete di nuovo dentro l’immobile e crudo paesaggio della Sicilia interna. Il Salso, il cui nome non è usurpato, è di questa stagione ridotto a una secca bava di sale. Il caldo, nella valle, toglie il respiro. Gli ulivi sembrano mucchi di cenere sotto cui cova il metallico fuoco di cui l’aria vibra. Il paesaggio intorno dice quale stentata vita abbia ormai l’agricoltura in questi paesi interni. Le campagne sono deserte: e prima, di questi tempi, erano popolatissime, piene degli arsi canti della mietitura e della trebbia. Mazzarino ha perduto circa tremila abitanti: ne conta ora poco più di 19mila. I contadini sono emigrati verso il nord d’Italia. Alla periferia di Milano, a Cusano Milanino, a Paderno Dugnano, ci sono ormai fitte colonie di mazzarinesi; e così a Ponte Decimo presso Genova; a Venaria Reale, Settimo Torinese, Nichelino, Moncalieri, Alessandria in Piemonte. Non molti gli emigrati in Germania, in Francia, nel Venezuela. I mazzarinesi non amano allontanarsi troppo dal loro paese. Nei luoghi in cui riescono a piazzarsi, fanno di tutto per continuare a vivere nel ricordo e nel sentimento del paese lontano. A New York o a Caracas o ad Alessandria o a Cinisello, il centro del loro riposo, il luogo dove ci si incontra, la piazza e il caffè dove si danno appuntamento tra loro, prende il nome della piazza di Mazzarino dove ogni sera i contadini si affollano: il Carmine, la piazza del Carmine. Ci vediamo al Carmine, ti aspetto al Carmine. Ma l’emigrazione non ha per niente alleviato la disoccupazione; e l’agricoltura risente della mancanza di braccia. Sono cose apparentemente incomprensibili. Un contadino spiega: «Non è come quando si sta seduti in troppi su una panca, stretti stretti: che uno si alza e gli altri pigliano respiro, si assestano meglio; è diversa, la cosa: più gente se ne va, più fame c’è». Quest’anno, poi, il raccolto è stato scarsissimo: un trenta per cento in meno, si calcola, rispetto alle precedenti annate. I mazzarinesi passeggiano in piazza del Carmine e discorrono dei lavori della campagna, del raccolto, della speranza o del proposito di andarsene. Discorrono anche dei frati, della loro assoluzione, dello stato di necessità.

Ne discorrono con distacco: in fondo se l’aspettavano, lo sapevano; le cose vanno per lo stesso verso, il mondo gira sempre da una parte. L

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