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Salvini, la strategia della maglietta

Dalla Padania all'euro fino alle ruspe. Tante critiche, ma lo stile funziona

Salvini, la strategia della maglietta

Il rito dello scambio della maglia a fine partita è difficile. Non perché Matteo Salvini non sia sportivo. Ma ve lo immaginate mentre si toglie la t-shirt «Ruspe in azione» per mettersi quella rossa di Saviano, simbolo dell'accoglienza? Pure il fair play ha dei limiti.

Dalle felpe con i nomi delle città alle cravatte verdi, era dai tempi della bandana di Berlusconi che non si studiava così il look di un politico. Ma nella cabina armadio di Matteo, un'occhiata particolare lo meritano le magliette.

Diceva Balzac che «il bruto si copre, l'arricchito si addobba e l'elegante si veste». Il ministro dell'Interno invece indossa le sue idee e le sue passioni, i suoi nemici e il suo Pantheon. Il meccanismo è quello dei tatuaggi: uno per ogni idolo e per ogni fase della vita. Salvini ha fatto di se stesso una bacheca elettorale permanente e le t-shirt sono i suoi manifesti.

L'ultima polemica è stata sulla maglietta «Offence best defence», l'offesa è la miglior difesa, che sta all'estrema destra come le babbucce a Briatore. La risposta è stata un tweet con la polo del Brigata San Marco. Nell'era dell'iper-comunicazione in tempo reale, la propaganda veste largo. L'abito non fa il monaco, ma la maglietta può fare il politico. E può fare la differenza.

L'accusa è facile: è la maniera più superficiale di lanciare slogan e di avvicinare la «gente». I completi di sartoria sono da casta, il giubbotto di Renzi démodé: meglio una pelle di stoffa che cambia ogni volta a seconda della platea. Strategia populista e banale finché si vuole, ma rodata ed efficace. Ci sono immagini di un Salvini poco più che adolescente che sfoggia sul petto la foto di Bossi e la scritta «Mai mulà», mantra di una Lega che fu. Ci furono «Padania is not Italy» e «Prima il Nord», modelli della collezione celtica primavera-estate. Funzionavano, anche economicamente. Alle feste del Carroccio si vendevano come salamelle, facevano gruppo e squadra. Una t-shirt contro Pisapia e il gazebo si riempiva. Dunque perché non continuare, seppur su sfumature sempre meno verdi?

L'elenco è stucchevole, se ne scovano di ogni genere, da quelle della serie «Io sto con...» (con Stacchio, con la Polizia) a quelle della serie «Stop...» (Fornero, Invasione, Euro, Renzi). Hanno seguito l'evoluzione di Matteo da autonomista a sovranista. Ma spesso nemmeno sono sue, semplicemente gliele mettono in mano durante comizi e serate. La differenza è che altri sorridono e le lasciano lì, Salvini le indossa e le fa proprie, così come fa proprie le battaglie per gli operai di Fincantieri o per l'autonomia del Veneto. La reazione della gente è automatica: lui è uno dei nostri. E a forza di essere dei nostri diventa uno di tutti. Superficiale ma ad ampio raggio.

Riviste tutte insieme, sembrano la bacheca di un adolescente confuso e Salvini ne esce come uno Zelig indeciso fra Putin e la sagra del prosecco. Lunedì cattolico tradizionalista, martedì basco, mercoledì uomo d'ordine, giovedì ultras, venerdì papà orgoglioso della maglietta disegnata dal figlio. Si può storcere il naso e pensare che all'istituzione convenga di più una camicia. Ma non si può negare che funzioni.

La politica è una giungla, l'habitat perfetto del camaleonte.

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