Cronache

"Goliardata", l'ultimo alibi dei deficienti

"Goliardata", l'ultimo alibi dei deficienti

Le parole non sono spari a salve. Sono roba importante. Usarle a casaccio è il modo migliore per mischiare il bene e il male. Usarle con esattezza aiuta a definire le situazioni, a circoscriverle, a comprenderle.

Ad esempio, non cadete nel tranello frequente di chi definisce qualsiasi scempiaggine compiuta da se stesso o dai suoi sodali una «goliardata», esibendosi in questo modo con rara maestria nell'arte tutta italica della deresponsabilizzazione, dell'ignavia solenne.

Goliardata, dice il vocabolario online Treccani, è un sostantivo femminile che definisce un'«azione, impresa, discorso o affermazione che hanno il carattere dell'improvvisazione, della leggerezza, della spacconata, e nello stesso tempo dell'audacia, dell'arditezza, della baldanza non conformistica tipiche dei goliardi». Nessuna interpretazione di questo lemma, per quanto di manica lessicalmente larga, può comprendere l'uso di un'arma, ancorché a salve, contro una persona innocua come avvenuto nel caso dei due tredicenni di Vicofaro che hanno sparato contro un gambiano lo scorso 2 agosto e che - scovati - hanno motivato la loro performance come una goliardata, parola che qualche adulto avrà messo loro in bocca perché lo Zeitgeist la ammette come attenuante generica per qualsiasi gesto imbecille. Fu una goliardata quella dei lanciatori di uova giovani, torinesi (e uno anche del Pd) che colpirono l'atleta di colore Daisy Osakue. Fu una goliardata quella del gestore di uno stabilimento balneare a Chioggia, che l'anno scorso espose cartelli inneggianti al Duce e al fascismo e poi così definì quella trovata, non facendo nemmeno onore alle sue idee, per quanto deprecabili.

Insomma, la goliardata è diventata un passepartout ideologico, un modo per minimizzare qualsiasi atto idiota e violento, qualsiasi blackout della ragione. Una triste liturgia a cui i media si prestano stolidamente, come quello di definire «bravo ragazzo» chiunque si sia comportato come un bravo ragazzo mai farebbe. Una semplificazione delle idee e delle azioni, una semantica al contrario, una sottrazione di senso e significato. Insomma, una presa per il culo.

Ma non saremo certo sorpresi di ciò, nell'Italia in cui uno vale uno, in cui l'improvvisazione e l'incompetenza diventano vanto anziché onta.

Una sola cosa concediamo ai tredicenni «goliardi» di Vocofaro: che non abbiano agito per razzismo.

Perfino il razzismo, nella sua aberrazione, è una cosa troppo seria per essere uno stupido gioco da ragazzini.

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