Controcultura

Il pop commerciale: le star fanno soldi con birre e guêpière

Bob Dylan smercia whisky e i Kiss persino bare. Un fatturato stellare

Il pop commerciale: le star fanno soldi con birre e guêpière

Sì certo le belle canzoni fanno bene. Ma il merchandising fa cassa. Dopotutto da anni gli incassi discografici sono in calo e quelli dei concerti impongono spese e, soprattutto, tanta fatica. Molto meglio monetizzare in altro modo. E così i cantanti si «brandizzano». Diventano marchi. Producono moda oppure gadget oppure vino, birra, whisky oppure qualsiasi altra cosa, basta che abbia ben chiaro sull'etichetta il nome dell'artista oppure della band. E crei fatturato.

I primi a farlo in modo industriale sono stati i Kiss che mettono in commercio oggetti di qualsiasi tipo, dalle tazze ai giochi del bingo e persino alle bare, per un fatturato che in 40 anni ha superato i 500 milioni di dollari (fonte Wall Street Journal). Dopotutto, se qualcuno si fa seppellire in una bara con il logo dei Kiss, vuol dire che la passione non ha confini. Imparata la lezione, ormai la seguono tutti, e non soltanto le band che hanno un pubblico fidelizzato e costante. Ramo preferito: la moda. L'ultima è stata Miley Cyrus, che a maggio è diventata stilista per Converse con una «capsule collection» di abiti e sneakers (che cos'è una capsule collection? È una collezione composta da pochi elementi facilmente abbinabili e interscambiabili fra loro). Il suo contratto si presume a sette zeri. Ma, prima di lei, la lista di popstar diventate stilisti si è fatta più lunga di una coda in autostrada a Ferragosto, da Lady Gaga a Beyoncé a rapper come il vanitosissimo Kanye West o il businessman Jay-Z appena diventato direttore creativo di Puma. E anche in Italia i rapper non si fanno mancare nulla, in perfetta sintonia con i loro colleghi americani. Il primo è stato Guè Pequeno nel 2013, poi Marracash con una linea di abbigliamento «rigorosamente street» e, a seguire, Fabri Fibra, Mondo Marcio, Emis Killa, Sfera Ebbasta e tanti altri. Ogni artista ha la propria moda. E le strategie commerciali sono identiche a quelle dei grandi marchi. Ormai il pop è come Amazon: c'è tutto per tutti i gusti. E i cantanti sono testimonial di loro stessi. Bei tempi quando Madonna era la musa di Jean Paul Gaultier o di Dolce & Gabbana: loro la vestivano e lei li sponsorizzava in tutto il mondo. Un cambio «merce». La moda e la musica avevano creato una società di mutuo soccorso: uno aiutava l'altro. Oggi è tutto fai da te. «Savages arriverà in ogni tipo di forma e di taglia, preparatevi!», ha scritto Rihanna a maggio su Instagram per lanciare la sua nuova linea di intimo e garantire di raggiungere tutto ma proprio tutto il suo pubblico (infatti ci sono tutte le taglie, dalla extra small alla tripla XL). Probabilmente la prima di tutte è stata Victoria Beckham, che ha sfruttato le Spice Girls come trampolino per lanciare un marchio di moda prima ultra sexy e ora molto più chic.

Ma anche il fashion è come il pop: va a fasi, cambia, segue i flussi. Perciò ora Victoria Beckham è molto meno centrale rispetto a Rita Ora che, soltanto per parlare dell'Italia, ha lanciato una «capsule» di sette pezzi di intimo per Tezenis. Tra poco toccherà ad Ariana Grande e poi a tutte le nuove popstar che nei prossimi anni si alterneranno a ritmo sempre più frenetico. Dopotutto è finito il legame saldissimo tra l'artista e il proprio pubblico. Tutto è più fugace e transitorio e non si compra più un capo di abbigliamento firmato da un artista solo perché si ama il disco di quell'artista. Lo compra anche chi non ne sa riconoscere neanche un brano però ha visto il nome sui social oppure sui magazine. Insomma, è tutto smaccatamente commerciale.

Per capirci, il rock è più focalizzato. Ad esempio, i Motorhead del compianto Lemmy hanno messo in commercio un whisky «singles malt» (ma pure una vodka) e pochi possono eccepire che non siano stati grandi testimonial della materia. Ma, per rimanere in ambito metal, persino gruppi di super culto come i Grave Digger (la loro Headbanging Man del 1984 è un must per gli amanti del «power metal») hanno il loro rispettabile whisky di 6 anni chiamato pomposamente «Aureum». Idem per Bob Dylan e il suo whisky pregiato o per i Pogues, icone del folk punk irlandese che hanno firmato un «irish whiskey» da 29,99 sterline. E l'elenco può continuare all'infinito, dai Rolling Stones agli Ac/Dc a Robbie Williams a qualsiasi altro artista che sia riuscito a conquistarsi una fetta, seppur piccola, di mercato. Però fino a poco tempo fa questi gadget erano sfizi da aficionados magari un tantino esagerati. Ora è un mercato da centinaia di milioni di dollari l'anno. Ed è un mercato che sostiene (o talvolta sostituisce) quello principale. Insomma, oggi il pubblico non compra più il feticcio dell'artista preferito. Ma compra un oggetto che ha lo stesso nome del testimonial.

Sembrano dettagli, ma in realtà cambiano tutto.

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