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Ecco il nuovo sapore venuto da lontano che fa impazzire gli chef

Il «caviale vegano» è originario dell'Australia La polpa è deliziosa. E costa 200 euro al chilo

Consorzio FingerLime
Consorzio FingerLime

Dopo la polvere di plancton, le alghe, i fiori commestibili e (per chi se la sente) grilli e bruchi, arriva dalle pendici dell'Etna con lo pseudonimo di «caviale vegano» l'ultimo nato della categoria dei cosiddetti novel foods che sta mandando a mille giri la fantasia degli chef. Il pesce non c'entra nulla eppure questo agrume proveniente dall'Australia ribattezzato «finger lime» ha caratteristiche talmente simili alle uova di storione da aver già dato vita a ricette e abbinamenti d'alta cucina. E, ovviamente, a un nuovo business nel sempre più variegato mercato dell'agroalimentare.

Il nome scientifico del frutto è Microcitrus australasica, ha una forma che ricorda quella del lime, più allungata e con colorazioni che vanno dal verde al rosato. Ma la caratteristica che sta facendo innamorare i cuochi e i pasticceri di mezzo mondo è la sua polpa composta da minuscole perle che, all'«esplosione» in bocca, stuzzicano il palato con un delicato ma intenso gusto di agrumi. Qualità visive e gastronomiche che stanno rendendo le perline di questo frutto un accostamento ricercatissimo per gli antipasti di mare (soprattutto crudité), le ostriche, le tagliate di pesce (soprattutto tonno e salmone), ma anche per aromatizzare i cocktail, accompagnare i formaggi stagionati e rendere più sfiziosi i dessert a base di frutta esotica. Del resto, questo misterioso frutto che cresce spontaneamente nella foresta subtropicale, è da molto tempo largamente utilizzato come ingrediente nella ristorazione australiana. In Italia, questa volta, sono arrivati per primi i siciliani, con una nuova generazione di produttori di nicchia che ha scoperto come la qualità del terreno dell'Etna, unito al clima soggetto a forti escursioni termiche tra giorno e notte, risulti eccellente per la coltivazione del finger lime. Di più, proprio la ricchezza organolettica del suolo vulcanico darebbe vita a un gusto addirittura più interessante rispetto al prodotto australiano.

Dopo la globalizzazione del pachino e del fico d'india, ecco dunque una nuova eccellenza che ha introdotto sul mercato della ristorazione non soltanto il frutto nudo e crudo ma anche prodotti di trasformazione. Emblematica la storia dei fratelli Corrado e Riccardo Massimino che, tre anni fa, fondarono ad Acireale un'azienda agricola su tre ettari che oggi coltiva una ventina di varietà di finger lime al cento per cento siciliano da cui vengono prodotte anche confetture ad uso ristorazione e addirittura un liquore. Ed è nato anche il Consorzio FingerLime che tutela e garantisce la qualità del frutto.

Il futuro del «caviale dell'Etna» come prodotto ormai made in Italy, appare segnato da una richiesta che arriva anche da oltreoceano, anche in virtù di varietà che hanno diversi cicli di fioriture e che permettono una produzione per quasi tutto l'anno. In prima linea ci sono gli chef, sempre più avidi di novità per le loro ricette, ma anche i leader nella distribuzione agroalimentare.

Ovviamente i tradizionalisti della cucina italiana storcono il naso anche perché, dopo aver sdoganato grilli e farfalle, le nuove tendenze della gastronomia sono pronte a dare il via libera anche alla cannabis come ingrediente per ricette dolci e salate. Ma questa è un'altra storia, senza contare che neppure quattro secoli fa tra i nostri «novel foods» figuravano il mais, le patate e i pomodori.

Fatto sta che alle pendici dell'Etna la febbre del finger lime negli ultimi tre anni sta contagiando altri piccoli produttori che hanno già riconvertito piantagioni di limoni, fichi e persino vigne. Come nel caso della Batia dell'Arcangelo Gabriele che, alla produzione di melograni e ai gelsi neri distribuiti ai gelatieri della costiera orientale, ha di recente affiancato anche quella del finger lime. Una febbre dovuta anche al fatto che, attualmente, il caviale dell'Etna ha un prezzo che si aggira sui duecento euro al chilo. Caro, certo, ma sempre meno di quello Caspio.

Per le vere «uova d'oro» erano arrivati prima i bresciani, allorché un industriale dell'acciaio scoprì che l'acqua calda che usava per raffreddare i suoi impianti era un habitat perfetto per allevare gli storioni; e oggi il suo caviale è quello più venduto al mondo.

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