Cronaca locale

«Chissà perché il teatro ha ammazzato il dialetto milanese»

Filippo Crivelli, padre di «Milanin Milanon» riceve il premio Enriquez alla carriera

Antonio Bozzo

L'Ambrogino d'Oro non gliel'hanno mai dato, si sono proprio dimenticati di lui. «Mi vanto di non averlo preso», dice Filippo Crivelli, 90 anni, milanese, regista teatrale e televisivo tra i più prolifici, lucidissimo, ancora in attività. Ha diretto e lavorato con i grandi nomi dello spettacolo (da Pavarotti alla Callas, da Milva a Milly, da Fracci a Cortese, solo per dirne alcuni) ed è egli stesso nome fondamentale per chi voglia raccontare, senza rimozioni, la storia novecentesca del teatro, soprattutto quello nutrito dagli umori milanesi.

Nemo propheta in patria: se a Crivelli non tocca l'Ambrogino («non sono di sinistra, né di destra. Mi ritengo un uomo libero, non ho mai organizzato gruppi di pressione per il riconoscimento: sono ignorato, va bene così»), tocca il Premio Enriquez alla carriera. Gli verrà consegnato a Sirolo (Ancona) il 30 agosto, nella serata clou dei riconoscimenti - intitolati al regista di teatro e d'opera Franco Enriquez, scomparso nel 1980 a soli 52 anni - con i quali ogni anno vengono premiati nomi del teatro, della musica, delle lettere «per una comunicazione e un'arte di impegno sociale e civile». Milano, oltre che con Crivelli, è sotto i riflettori con Francesco Brandi, autore e protagonista di Buon anno, ragazzi, uno degli spettacoli più apprezzati nella stagione del Franco Parenti di Andrée Ruth Shammah, con regia di Raphael Tobia Vogel. C'è dunque motivo di orgoglio, per i milanesi. «Ed è giusto», dice il direttore del Premio, Paolo Larici. «Milano è una grande metropoli, la città-motore d'Italia, anche nel teatro». Peccato che proprio a Milano il teatro in lingua meneghina abbia spazi sempre più ridotti, rischia addirittura l'estinzione. Sentiamo Crivelli, che nel 1962 mise in scena Milanin Milanon, al Gerolamo. Scritto con Roberto Leydi, era una sorta di antologia in musica dello spirito della vecchia Milano, ancora aleggiante in città. In scena, c'era anche un giovane Enzo Jannacci: aveva preso il posto di Giorgio Gaber, impegnato altrove. «Quei tempi», dice Crivelli, «non possono tornare. Che fine ha fatto il Gerolamo? Sì, lo hanno riaperto, ma non ospita più spettacoli come quelli. Poi cosa c'è? Con il Piccolo sono in perenne polemica, riguardo agli spettacoli in milanese. C'è il teatro della Memoria, ma non fatemi parlare della sala di Aleardo Caliari, per carità. Non ha nulla da spartire con la vera anima del teatro in vernacolo». Crivelli ha firmato molte regie liriche, operette, recital. Il suo nuovo lavoro ha esordito a Pesaro, ed è un personalissimo Cabaret Rossini, ospitato appunto nel Festival dedicato al compositore. «Mi sono ispirato», racconta Crivelli, «ai meravigliosi Péchés de vieillesse, i peccati di vecchiaia composti da Gioachino Rossini. Spero che lo spettacolo arriverà a Milano, ma la sua messinscena è molto complessa». Riusciremo a vedere sotto il Duomo questo «peccato di vecchiaia» del giovane novantenne Crivelli? Speriamo. Intanto che si goda il premio Enriquez.

Ci sentiamo di ringraziare Paolo Larici, a nome degli appassionati di teatro, per averglielo dato: la distrazione a questo punto è solo di chi assegna gli Ambrogini.

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