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È sempre più il governo Tria. Cinque stelle messi all'angolo

Il ministro è il vero interlocutore di Quirinale e Bce. Le richieste impossibili di Di Maio & C. lo rafforzano

È sempre più il governo Tria. Cinque stelle messi all'angolo

Forse tra qualche anno, nell'album dei governi italiani, il nome dell'attuale gabinetto sarà modificato, magari ricorrendo al bianchetto: il governo Conte 1, sarà sostituito dal governo Tria 1. Qualcuno potrà anche considerare simile affermazione alla stregua di una provocazione, ma nella realtà il governo gialloverde, che ha tecnici in tutti i suoi ministeri più importanti (Economia, Esteri, Difesa, Rapporti con l'Europa) e un forte imprinting politico nelle persone dei due vice-premier (Salvini e Di Maio), sta cambiando presidente del Consiglio. I grillini possono dire ciò che vogliono, possono far passare sui giornali la vulgata (grazie alle chat di Rocco Casalino) che Di Maio ha dato l'ultimatum a Tria, ma, nei fatti, è l'esatto contrario. Il ministro dell'Economia, infatti, sta assumendo lo stile di ogni premier tecnico (da Ciampi a Monti): non essendo espressione di una rappresentanza politica, non avendo seguaci in Parlamento, ventila (non si tratta di una minaccia perché l'espressione potrebbe turbare i mercati) che se ne potrebbe andare. In altre parole fa le veci di quello che dovrebbe essere il premier sulla carta, Giuseppe Conte, che, soffrendo la personalità dei due vice-premier e pagando lo scotto di aver controfirmato un contratto di governo che non sta in piedi pur di entrare a Palazzo Chigi, ha (o fa finta di avere) la testa altrove, visto che non sa che pesci prendere.

Così, suo malgrado, Tria è diventato il punto di equilibrio del governo: dal Quirinale chiamano più lui che non il supposto premier e gli danno manforte; il presidente della Bce, Mario Draghi, ripete lo stesso concetto che il ministro dell'Economia ha pronunciato due settimane fa («le parole provocano danni»); Bruxelles e i mercati pendono dalle sue labbra come alternativa per usare l'espressione colorita del commissario Pierre Moscovici «ai piccoli Mussolini»; le opposizioni si rivolgono a lui per ogni mediazione. E, alla fine, anche i due dioscuri del governo, Salvini e Di Maio, sono costretti a venire a patti con Tria.

Il vicepremier leghista, più avveduto, seguendo i consigli del sottosegretario Giorgetti che ha un filo diretto con Draghi, lo ha capito già da qualche settimana: per cui ripete il leitmotiv del ministro dell'Economia («non sforeremo il 3%») e si prepara a giocare la sua partita su uno scenario diverso da quello economico, sfornando i decreti «sicurezza». Il vicepremier grillino, invece, più sprovveduto, più inesperto e alle prese con il malcontento che cova nel suo movimento, alterna strappi a ricuciture. Nella sostanza, però, in un mare di parole, di dichiarazioni e di polemiche, stanno passando le indicazioni del premier «ombra»: si eviterà l'aumento dell'Iva; la legge di Bilancio recepirà solo in termini nominalistici le proposte simbolo di Lega e Cinque stelle, flat tax e reddito di cittadinanza, senza cioè minare i conti pubblici; altre voci del contratto di governo saranno congelate con nonchalance (è in bilico l'azzeramento della legge Fornero).

Ma quale arma ha il professor Tria per ridurre a più miti consigli i suoi scolaretti indisciplinati? Una condizione dell'animo che è opinione generale - può trasformarsi in un efficace strumento politico. «A Tria spiega Guido Crosetto, esponente di Fratelli d'Italia che lo conosce bene non frega nulla di restare al ministero dell'Economia». «Sta diventando ammette il suo predecessore nel ministero più nevralgico del governo, Pier Carlo Padoan la persona di riferimento, il punto di equilibrio. Ha dimostrato di avere il coraggio di lasciare se non lo seguono: e questo gli dà forza. Anche se le dimissioni sono un'arma paragonabile alla bomba atomica: puoi usarle una sola volta».

«Se questo governo andrà avanti osserva Renato Brunetta diventerà il governo Tria. Conte non esiste e Tria è un duro. Sulla durata, però, non scommetterei. Ci possono essere fattori imponderabili: l'ala giustizialista dei Cinque stelle è in rivolta; e in alcune aree del meridione il movimento ribolle, dato che rischia di dover pagare con l'impopolarità le sue promesse al vento su reddito di cittadinanza, Ilva e Tap. Quindi, non è detto che per salvaguardare la propria unità, i grillini non imbocchino la strada della crisi».

Forse. È un'ipotesi. Ma è più probabile che alla fine Di Maio abbozzi. «I 5 stelle proprio non li capisco confida il presidente della commissione ambiente della Camera, il leghista Alessandro Benvenuto -: Di Maio un giorno chiede 10 miliardi di euro nella legge di Bilancio per le sue promesse elettorali; e il giorno dopo è costretto a rimangiarsi tutto. Sono i loro errori, che fanno apparire Tria come il vero premier». Argomentazione che ha il suo perché. Se, infatti, Tria è capace di andarsene davvero, è estremamente difficile, se non impossibile, che i Cinque stelle provochino una crisi di governo. «Se va via Tria scommette il capogruppo di Liberi e Uguali alla Camera, Federico Fornaro lo spread balza subito a 800». A quel punto l'opzione elettorale sarebbe un salto nel buio (tanto più per un partito che sta scendendo nei sondaggi come i 5 stelle) e si ripresenterebbe l'ipotesi di un governo tecnico per tirare fuori il Paese dai guai.

Qualche giorno fa, come riportato da questo giornale, nella cerimonia di commemorazione di Oscar Luigi Scalfaro alla Camera, alla presenza del Presidente Mattarella, Francesco Sapio, una presenza ultraventennale al Quirinale, riportava una voce del Palazzo: «Questi non reggono: è già pronto un governo tecnico guidato da Cottarelli». E il protagonismo degli ultimi giorni di Mattarella dimostra che queste minacce hanno uno scopo: non tanto quello di tenere in vita il governo Conte, quanto di dare forza per usare un gioco parole al governo nella versione Tria.

Appunto, per i grillini passare da Tria a Cottarelli, sarebbe come cadere dalla padella alla brace: in questi casi è meglio stare fermi, per non farsi ancora più male. Insomma, a ben guardare, Di Maio e compagni, sono finiti, per la legge del contrappasso, in quella ragnatela che spesso ha legato le mani a tanti leader e partiti della Prima e della Seconda Repubblica.

Dal Cav a Renzi.

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