Cronaca locale

L'amante ebrea di Mussolini che scoprì l'arte di Lautrec

In mostra al Museo del '900 la collezione di quadri di Margherita Sarfatti, dama dei salotti milanesi

L'amante ebrea di Mussolini che scoprì l'arte di Lautrec

Margherita Sarfatti è stata una delle intellettuali più importanti del '900: giornalista e critica d'arte ha «dettato la linea» della produzione artistica italiana per un ventennio, tra gli inizi del secolo scorso e gli anni Trenta. Un periodo che coincide con i suoi «anni milanesi» quando la donna, nata Margherita Grassini nel ghetto di Venezia e nutrita da un'istruzione privata di primissimo rango, sposa l'avvocato Cesare Sarfatti e viene a vivere al civico 19 di via Brera.

Per una mente sveglia e brillante, proiettata verso le novità e i cambiamenti (a Parigi compra litografie di un giovane Toulouse-Lautrec allora sconosciuto), la Milano dell'epoca è l'ambiente ideale: Margherita Sarfatti si inserisce nei circoli socialisti di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, diventa amica di Ersilia Majno, presidente della Lega femminile milanese, alterna l'attività di giornalista all'Avanti! a quella di dama nei migliori salotti. Milano è una turbina di idee (nel 1909 Marinetti lancia il Manifesto del Futurismo) e critici e giornalisti ne registrano il fervore: Margherita Sarfatti è l'unica donna a tener testa a personalità come Ugo Ojetti e Vincenzo Bucci, impegnati a delineare un nuovo e più moderno sistema dell'arte che coinvolga artisti, galleristi, mecenati, mercanti.

Alla velocità futurista predilige però il classicismo: frequenta il salotto di corso Venezia 93, dove si confronta con Medardo Rosso, Arturo Martini, Massimo Bontempelli. Appassionata, poliglotta, indipendente: Margherita Sarfatti fa perdere la testa anche al giovane Benito Mussolini. Milano celebra ora questa donna originale con una mostra al Museo del Novecento, in parallelo con un'altra esposizione a lei dedicata al Mart di Trento e Rovereto (sede dell'Archivio Sarfatti): un unico catalogo, edito da Electa, che co-produce il tutto, lega i due progetti. E se nella sede trentina ci si concentra sul ruolo della Sarfatti dopo l'esilio in seguito alle reggi razziali (poco o nulla contò il suo legame con il Duce che, a metà degli anni Trenta, gli preferì Claretta Petacci), il museo di Milano con Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano (fino al 24 febbraio) ragiona sull'arte degli anni Venti e sul contributo dato allo sviluppo nella nostra città. Difficile fare una mostra che non sia dedicata a un'artista, ma a una critica: Anna Maria Montaldo e Danka Giacon, con Antonello Negri, hanno cercato di ricostruire l'atmosfera del tempo. Si parte dal ritratto che Mario Sironi dedica a Margherita e si incontrano i pezzi che la Sarfatti più amava: un delizioso crepuscolo di Boccioni, un paesaggio di campagna di Carrà, i disegni industriali di Stroppa. Ci sono abiti d'epoca, prime pagine dei giornali, documenti. Il cuore del progetto è il titolo del saggio del '25 «Segni colori e luci. Note d'arte» nel quale Margherita Sarfatti auspica il ritorno a un'arte razionale, costruttiva, sincera, sobria. Quello stile che troviamo nel cosiddetto gruppo Novecento: Sironi, Funi, Bucci, Marussig, Malerba, tutti ben rappresentati in mostra, campioni di una «moderna classicità» fatta di opere composte e raffinate.

Arte di regime? Sarebbe riduttivo chiamarla così: le «Donne al caffè» di Marussig per non parlare del «Meriggio» di Felice Casorati sono sì un «ritorno all'ordine», ma alla bellezza rinascimentale.

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