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La rivoluzione che non c'è: Al-Aswani racconta la primavera araba fallita

Lo scrittore egiziano ripercorre dopo sette anni la rivolta che non ha cambiato il suo Paese

La rivoluzione che non c'è: Al-Aswani racconta la primavera araba fallita

A distanza di sette anni da quella rivoluzione egiziana che si scrollò di dosso l'allora presidente Mubarak, Ala al-Aswani ritorna al romanzo per farne un bilancio se non definitivo, certo sconsolante. Non era stato così quando, fra i fondatori del movimento di opposizione Kifaya (Basta così), aveva dato alle stampe un libro che già nel titolo quella rivoluzione echeggiava, scritto in presa diretta rispetto agli avvenimenti e forte di una documentazione degli abusi del regime che gli veniva da una lunga attività di intellettuale impegnato e combattivo. Era, anche questo, uno dei paradossi dell'Egitto moderno, legato al fatto di non essere, in termini politologici, una dittatura, ma un classico regime autoritario che nel mezzo secolo seguito alla caduta della monarchia, aveva sperimentato un leaderismo da capi carismatici, Nasser, pragmatici, Sadat e appunto Mubarak, alle prese comunque con un Paese a sua volta leader nel mondo arabo per dimensioni, storia, retaggio culturale. L'esistenza di un ceto medio consistente, medici, ingegneri, architetti, professori, scrittori, quadri professionali, e quindi scuole, università, editoria, giornali, una forte apertura e commistione con il mondo esterno, una tradizione cosmopolita avevano di fatto reso fino ad allora pressoché impraticabile una deriva totalitaria, lasciando qui e là sacche di resistenza, libertà e diritti formali, garanzie individuali.

Più che perseguitare sistematicamente e apertamente gli oppositori borghesi, il regime aveva preferito la strada delle blandizie e delle minacce, della legalità apparente che poteva anche trasformarsi in legalità sostanziale, ma sempre e comunque in virtù di un arbitrio dall'alto... Consapevole che un tasso limitato di critica non erode il potere, ma semmai lo ammanta di liberalismo, il trentennale regime di Mubarak aveva insomma preferito tenere in vita i difensori delle cosiddette libertà borghesi, forte del fatto che il controllo della polizia, della magistratura, delle leve economiche e di quelle militari gli garantivano quello dell'intera nazione. Questo spiega perché Ala al-Aswani abbia potuto esporre opinioni fortemente critiche su quotidiani non allineati quali Al-Arabi, al-Dustour, al-Shorouk. E del resto, quando il tono delle critiche oltrepassava quello che dal regime era considerato il livello di guardia, non ci voleva molto per riabbassarlo: si cambiava la proprietà del giornale reprobo, si faceva licenziare un direttore troppo coraggioso, oppure lo si sfiniva attraverso processi e cause assurde.

Rispetto ad allora, il bilancio, appunto, che in forma di romanzo (Sono corso verso il Nilo, traduzione di Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio, Feltrinelli, 382 pagine, 18 euro), Al-Aswani traccia è virato al nero proprio perché se quella rivoluzione spazzò via un presidente malandato in salute, incarnazione di un sistema di potere corrotto quanto svuotato, insediò, senza volerlo una giunta militare più giovane, più capace e più reattiva quanto alla difesa di se stessa, persino moderna nel suo rivoltare contro le élites intellettuali, professori, studenti, bloggers, quelle armi, internet, video, canali televisivi e radiofonici che avevano reso momentaneamente vittoriosa la rivoluzione egiziana. Il nuovo dominus del Paese, il generale Al Sisi ha inoltre cavalcato disinvoltamente quello che era già stato uni dei cavalli di battaglia del deposto Mubarak rispetto alla cancellerie occidentali, ovvero il suo essere il più fedele alleato e baluardo contro ogni tentazione fondamentalista. Lo ha fatto con il sublime cinismo di dare il via libera alla partecipazione elettorale dei Fratelli musulmani, non ostacolarne la vittoria, per poi, complice la crisi economica sempre più pesante, mettergli contro la piazza, dichiararli fuori legge con un colpo di Stato e sancire così di nuovo la vittoria di un regime autoritario di stampo rigidamente militare.

Costruito sullo schema di Palazzo Yacoubian, suo primo straordinario successo, ovvero più storie che si muovono intorno a un luogo fisico e si intrecciano fra loro, Sono corso verso il Nilo mette in scena piazza Tahrir, lì dove 25mila egiziani in rivolta contro Mubarak si ritrovarono per occuparla a oltranza, l'assassinio di un giovane attivista da parte di un ufficiale, amori, illusioni tradimenti, soprusi e torture. C'è Dania, studentessa di medicina e attivista, nonché figlia del capo dei servizi segreti, c'è Asma', insegnante di inglese in lotta contro il velo e i dirigenti scolastici, c'è Mazen, ingegnere e sindacalista. Soprattutto, c'è Ashraf, copto d'origine, vecchio attore alla deriva in un mondo cinematografico e televisivo in cui non si riconosce più. È l'emblema di quell'Egitto colto, ma chiusosi in se stesso, giovane entusiasta all'epoca della modernizzazione socialnazionale nasseriana e poi sempre più disilluso nel vedere le speranze di riforme incancrenirsi, la volontà di cambiamento perdersi per le strade della corruzione e del compromesso, e lui con loro.

Come sempre, Ala al-Aswani non costruisce personaggi manichei e spesso chi in passato rischiò e pagò per difendere i diritti civili, si ritrova al presente ad esserne l'affossatore... In più ci restituisce l'immagine di una nazione dove lo stretto legame fra pratiche religiose e pratiche politiche, concezione piramidale della società come della famiglia, persistere delle differenze di classe, sudditanza psicologica della condizione femminile, abitudine all'autorità, privata quanto pubblica, rendono pressoché impossibile ogni cambiamento radicale. «Siamo l'unico popolo nella storia del mondo che ha elevato i suoi re al rango di divinità e li ha resi oggetto di culto. Il popolo egiziano adora i dittatori, assoggettarsi a un despota lo fa sentire sicuro».

Scritto in arabo, Sono corso verso il Nilo non ha trovato nel mondo arabo un editore disposto a stamparlo.

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