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Anime giapponesi e robot: un successo da oltre 40 anni in Italia

Il tweet di Elon Musk ha sdoganato, ce ne fosse bisogno, l’amore per gli anime robotici tra gli adulti. Quali sono i titoli più interessanti di questi anni?

Anime giapponesi e robot: un successo da oltre 40 anni in Italia

Anime giapponesi e mecha: un sodalizio di successo, che anche in Italia ha cresciuto generazioni di ragazzi. Qualcuno sceglieva gli scritti di Go Nagai, altri sognavano di essere Peter Rei: un trionfo concretizzato in una prima ondata di cartoni resa “eterna” da repliche protratte per oltre venti anni.

Titoli come Mazinga, Goldrake e Daitarn III, che a seguito di una caccia alle streghe del periodo anni ‘90 e grazie alla passione di chi li aveva apprezzati, sono rimasti sul piccolo schermo per oltre un decennio.

Così, dopo il tweet di Elon Musk, ogni maschietto ormai cresciuto che anche abbia semplicemente incrociato il genere mecha, in questi giorni si sarà posto una unica, semplice e banale domanda: ”Quale robot vorrei realizzato?”

Chi ha più di trent’anni, avrà ripensato immediatamente alla matita di Nagai: la sola saga di Mazinger conta oltre quindici tra serie e spin-off, iniziando dal primo Mazinga Z fino all’ultimo Mazinkaiser SKL del 2010.

Gli anni Settanta e le prime tre collezioni vedevano come protagonisti i piloti Koji Kabuto, Alcor e Actarus: si creò un fenomeno popolare di dimensioni così vaste da annoverare i singoli delle colonne sonore, tra i dischi più venduti in Italia nel 1978.

In particolare Ufo Robot Goldrake, con indici di ascolto alle stelle in corrispondenza della messa in onda del cartone: era il 1978, e se pur ultimo in ordine di realizzazione in Giappone, Goldrake fu il primo ad arrivare nel Bel Paese.

A ruota poi tutti gli altri: Gundam, il mecha bianco guidato dal giovane Peter Rei, Daitarn III con Haran Banjo e le bellissime assistenti, Robotech e i simil F14 trasformabili.

Ogni serie inseriva nuove e determinate caratteristiche: il travaglio interiore a cui era sottoposto il giovane pilota del mobile suit che odiava combattere, l’humor del maggiordomo di Benjo, le armi non convenzionali (come la musica di Robotech).

Mentre nella prima ondata di anime il tratto che separava buoni da cattivi era tendenzialmente molto netto, con l’arrivo della seconda i colori sfumarono.

L’inizio del nuovo millennio regala agli appassionati anche cresciuti una perla che perdura a distanza di oltre venti anni: Neon Genesis Evangelion.

L’Italia è in ritardo rispetto agli altri mercati, gli anime erano stati inconsciamente messi al bando dai più e resistevano solo poche pubblicazioni tramite DVD o VHS.

Ma il 13 dicembre 2000 la storia cambia: MTV lancia la maratona Robothon.

Finalmente, dopo un buco durato un decennio, tornano sullo schermo nuovi cartoni animati giapponesi, partendo appunto dai mecha.

La gente ne è affamata e l’impresa si dimostra un successo: il medesimo canale e Mediaset lo capiscono e riportano in Italia un genere mai dimenticato.

Neon Genesis Evangelion in particolare è un piccolo gioiello: una stratificazione di letture, adatto a ragazzi almeno adolescenti che nasconde moltissimi temi e possibilità di interpretazione.

Ci sono i mecha enormi e i loro scontri, come non si vedevano dai tempi di Mazinga: per i più, un bel cartone sui robot e basta.

Ci sono i riferimenti religiosi, con la Cabala ebraica e gli angeli, nemici dell’uomo per sopravvivere.

C’è la crisi psicologica del protagonista, l’analisi dei rapporti umani e la discussione su chi, in realtà, siano i veri cattivi.

Come un caleidoscopio, le possibilità di capire e vedere il cartone cambiano con la volontà dell’osservatore di impegnarsi nella visione.

Evangelion è il sasso nello stagno che crea il movimento: la seconda ondata di anime può ripartire in Italia e trascina altri titoli non soltanto robotici.

Arrivano a cavallo poi del 2010 Sfondamento dei Cieli Gurren Lagann e Code Geass: il primo riporta un concetto dimenticato dai tempi di Gordian, la scalabilità. In Lagann il robot protagonista ha più dimensioni, crescendo con le puntate fino a divenire probabilmente il maggior mecha mai pensato in un cartone.

A questa vecchia idea si fonde un pot-pourri di ingredienti robotici consolidati (l’eroe per caso, l’ironia e l’ilarità dei protagonisti, la bellezza femminile), aggiungendo veri colpi di scena nell’inquadramento dei protagonisti e della storia.

Piccoli accenni su sessant’anni di storie animate giapponesi, di cui cinquanta riferite ai soli mecha che tornano alla mente per un solo tweet. L’apparente asetticità di una frase prende, come un profumo, uno dei ricordi più cari e lo fa rivivere: qualunque sia il mecha realizzato o meno da Munsk non importa.

Ognuno probabilmente ha avuto l’occasione per pensare al proprio e rivederlo ancora una volta.

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