Cultura e Spettacoli

Aerei blu e sedie elettriche pop. Se vuoi la pace, mostra la guerra

Così l'arte ha raffigurato conflitti, genocidi e dittature Cinque secoli di sangue e capolavori, da Rubens a Jan Fabre

Aerei blu e sedie elettriche pop. Se vuoi la pace, mostra la guerra

Maurizio Maggiani, che è uno scrittore e non un artista, lo spiega molto bene - è la prefazione del catalogo, e il prologo della mostra - ma del resto è intuitivo. «La spada è più bella di un aratro», non si discute. Tutti i bambini giocano ai soldati, nessuno sogna di fare il contadino, anche se poi da grande - magari - diventerà un pacifista.

È il motivo per il quale non esiste un museo dell'aratro, e quelli della civiltà contadina sono poveri e noiosi. Mentre le spade, ingioiellate e lucenti, e persino macchiate di sangue, sono così belle...

Che belle le spade (qui a Ravenna c'è quella in acciaio, tempestata di minuscole corazze di scarabei verdi e gialli di Jan Fabre, Spanish sword, un pezzo del 2016...), e i bombardieri in volo (un lungo pannello con gli Aerei di Alighiero Boetti in penna biro blu su carta, 1990), e l'Alabardiere di Pieter Paul Rubens (1605). Che fascino l'eroismo del Miliziano colpito a morte di Robert Capa, simbolo della guerra civile spagnola e di tutte le guerre del Novecento (eccola qui, arriva dall'archivio della Magnum, e cosa importa che sia - come ormai sembra dimostrato - una fotografia posata, cioè «falsa»?). E che meraviglia il corpo-a-corpo, plastico e classicheggiante, dei Gladiatori (1955-60) di De Chirico... «Pólemos è padre di tutte le cose» ammonisce, sulla parete che apre il percorso dell'esposizione, un frammento di Eraclito: è antico di 2500 anni, eppure rimane un vessillo della cultura occidentale. La guerra, in tutte le sue forme, è l'unico arbitro della vita.

La guerra non è finita, a dispetto del verso più celebre della canzone più popolare di John Lennon e Yoko Ono (anno 1971, brano di protesta contro la guerra in Vietnam poi diventato un jingle natalizio) - ed ecco perché il punto di domanda anteposto al titolo della grande mostra aperta al MAR, il Museo d'Arte della città di Ravenna - ? War is over (fino al 13 gennaio), suona inquietante, problematico e retorico. «Ma la guerra è finita, obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. Guerra è sempre, rispose memorabilmente Mordo Nahum», recita un indimenticato dialogo della Tregua tra Primo Levi e un ex deportato nei lager. «Guerra è sempre».

L'uomo è sempre in guerra e l'arte è sempre uno scontro. Benvenuti a ? War is over, «Arte e conflitti tra mito e contemporaneità»: due anni e mezzo di lavoro, due curatori - Angela Tecce e Maurizio Tarantino - venticinque stanze, due interi piani di museo e tre temi-guida («Vecchi e nuovi miti», «Teatri di guerra», «Esercizi di libertà») uniti creativamente dalle istallazioni di Studio Azzurro per 80 opere esposte lungo cinque secoli di storia dell'arte e di guerra - dalla lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli, condottiero al servizio di Cesare Borgia, uno splendido marmo del 1525 che al museo di Ravenna è già di casa, fino al sacrario post-Novecentesco di bare di vetro, per ora fortunatamente vuote ma dal titolo per nulla beneaugurante Niente di nuovo (2018) del napoletano Eugenio Giliberti - e una idea forte. Non si dà pace senza guerra.

Ma siamo proprio sicuri che il contrario della guerra sia il dialogo? Spesso la risposta migliore è la rabbia. Quella che fa dipingere a Renato Guttuso la Fucilazione in campagna (1939) dedicata all'uccisione per mano franchista di Federico García Lorca. Oppure lo scherno. Quello che anima il grande disegno a carboncino del duo Vedovamazzei Nine smiling communists. «Una risata e venti milioni di morti», che crocifigge sul muro della vergogna della Storia i ritratti di nove leader comunisti, con tutti i loro orrendi crimini ideologici. O il j'accuse silenzioso. Come quello che scorre negli otto infiniti minuti del video La sombra della guatemalteca Regina José Galindo, in cui la stessa artista corre a fatica inseguita da un carro armato che non le concede possibilità di riposo o di fuga, in un crescendo di sofferenza fisica e tortura psicologica, come in ogni regime militare che si ricordi...

L'arte della guerra e la guerra vista dall'arte. Il percorso è tante cose. È a-cronologico: la guerra e la sua rappresentazione saltano da un secolo e da uno stile all'altro e Pòlemos spira ovunque, sempre. È emozionante: la tunica bianca inchiodata a una tela sporca di sangue di Hermann Nitsch, il Jeux de pages (1951) con cui Picasso torna alla riflessione sui disastri della guerra cominciata col Guernica, l'enorme aereo abbattuto, in PVC, di Paolo Grassino: occupa metà stanza contro una parete dallo sfondo rosso per il fuoco dell'esplosione e del sangue; oppure le serigrafie Electric chair del '72 dai colori squillanti e dall'aspetto oscuro, come il mito americano della pena di morte, di Andy Warhol... Ed è spiazzante: il gadget a grandezza naturale del maestro Yoda di Guerre stellari accanto all'Ettore e Andromaca di De Chirico, e poi i bozzetti a carboncino di Kentridge per il murales sul Tevere con barbari&partigiani, la Battaglia in ceramica smaltata di Lucio Fontana, una bomba a mano colorata di Pino Pascali...

Quando l'effetto collaterale della guerra è la bellezza.

E poi, la cosa più bella: infilarsi nel mini-cinema allestito al secondo piano della mostra e godersi per 40 minuti il montaggio di Fabrizio Varesco War games con le sequenze cult dei grandissimi film di guerra, da Uomini contro di Francesco Rosi a Full Metal Jacket di Kubrick.

E l'orrore terribile produsse uno splendido incanto.

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