Cultura e Spettacoli

"La letteratura parla il linguaggio della verità per capire gli uomini"

Il Premio Nobel presenta il suo nuovo romanzo «La finzione, quando la racconti, diventa vera»

"La letteratura parla il linguaggio della verità per capire gli uomini"

Fisico asciutto, prosa nitida, corps de l'acteur e il diavolo in corpo della scrittura: 78 anni, 46 libri (fra raccolte di racconti, romanzi, saggi e volumi per ragazzi), un arco narrativo che dagli anni '60 scavalla lo sperimentalismo del Nouveau Roman fino a saldarsi oggi alla forma romanzesca più tradizionale, un premio che batte tutti i premi (il Nobel, 2008) e un convincimento granitico - lui che è bretone per antenati, mauriziano d'origine, nizzardo di nascita e viaggiatore camaleontico che cambia pelle e cultura a ogni giro letterario, dai deserti nordafricani al Messico - nella interculturalità della letteratura. «Gli scrittori soltanto accidentalmente sono francesi, italiani, americani... Gli scrittori appartengono al patrimonio culturale del mondo».

Patrimonio francese della letteratura, Jean-Marie Gustave Le Clézio è accidentalmente di passaggio di Italia, per la traduzione del suo nuovo romanzo, Bitna, sotto il cielo di Seul (La nave di Teseo), storia di una ragazza di pochi mezzi ma di molta fantasia che nella Corea di oggi («Ci ho vissuto e insegnato a lungo di recente») per sopravvivere dentro la realtà del mondo accetta il lavoro di raccontare storie a una vecchia signora, di nome Salomè, immobilizzata da una malattia: favole che le regalino un giorno in più di vita.

Un romanzo che narra di una raccontatrice di storie che crea racconti per reinventare il mondo... Qual è il rapporto tra storie e vita?

«Realtà, finzione... Non è così importante ciò che le unisce e ciò che le divide. Ogni storia diventa vera nel momento in cui è raccontata. Quello che mi interessa, e che è importante nei miei romanzi, sono le piste, i punti di partenza che, da un episodio, vero o reale poco importa, si aprono in direzioni diverse. Ogni narrazione è lo spunto per un'altra narrazione, e poi un'altra ancora, lungo strade sempre differenti... Penso a Balzac, penso a Italo Svevo...»

E nel suo romanzo, Bitna, sotto il cielo di Seul?

«Ci sono due personaggi reali - Bitna, la ragazza che racconta, e Salomé, la signora che ascolta - e tutto il resto è immaginazione: storie che narrano l'amore, il rapporto tra due giovani, la morte...».

Il destino della protagonista è «far assaporare a Salomé il gusto della vita», raccontandole favole. Ha qualcosa a che fare con la Sherazade delle Mille e una notte?

«Ogni romanzo ha a che fare con Le Mille e una notte: è l'essenza stessa del racconto... Solo che qui è Salomè che muore, permettendo alla sua narratrice di uscire dal mondo della fantasia per imparare a vivere in quello reale».

Cioè la funzione della letteratura.

«Il ruolo della letteratura è quello di creare un linguaggio non al di sopra, ma diverso dalla vita reale.. Il linguaggio della vita reale porta a parlare delle malattie, dei fastidi quotidiani, dei soldi... In francese si dice papoter, il cianciare del più e del meno... Il linguaggio della letteratura invece non è fatto per cianciare, ma deve raccontare qualcosa a qualcuno. Il linguaggio reale ci serve per parla di invidie, gelosie, dei mezzi per tirare a campare. La letteratura deve andare oltre».

La letteratura deve creare dei mondi.

«Partendo dal reale. Pensi a cosa ha fatto Proust della sua malattia, l'asma... O Kakfa della tubercolosi. Hanno trasformato le loro piccole sofferenze in romanzi universali».

«Ogni storia si lega alle altre storie, come le persone che viaggiano nello stesso vagone della metropolitana, destinate senza rendersene conto a incontrarsi tutte da qualche parte, un giorno». Lo scrive Lei. Anche i suoi romanzi sono tutti legati uno all'altro?

«Non ne sono sicuro. Ma mi piace pensarlo. Ogni libro è un viaggio diverso, ma sicuramente tutte le storie hanno un punto in comune. Nel mio caso sono le leggende che si tramandano, i fatti storici, gli eventi personali che mi vengono raccontati: io ascolto e trasformo tutto in storie. Ho una certa difficoltà a scrivere ciò che succede a me. Ma grande facilità a scrivere ciò che accade agli altri. Se Lei ora mi racconta la sua vita, io la trasformo nel capitolo di un libro».

Niente autobiografismo.

«Il poeta francese Lautréamont, al secolo Isidore Lucien Ducasse, a 23 anni disse: Non lascerò le mie memorie. Ne ho fatto il mio motto. Anche se in realtà una volta la massima che seguivo era quella di Shakespeare: Sii fedele a te stesso da che deve seguire, come la notte al giorno, che tu non potrai essere falso con nessuno. Poi ho cambiato...».

Lei ha vinto il Nobel dieci anni fa. Cos'è cambiato da allora?

«Niente, per quanto mi riguarda: stile, idea di letteratura, necessità di narrare storie... Quello che è cambiato è lo sguardo degli altri su di me. Cosa di cui però non sono responsabile».

Quest'anno il Nobel non è stato assegnato, dopo che l'Accademia svedese - nell'anno del #MeToo - è stata investita da uno scandalo di molestie sessuali...

«Rispetto la decisione dell'Accademica svedese...».

Ma?

«Nulla. Non giudico».

Come giudica le polemiche sul rapporto tra comportamenti immorali o illegali di un autore, e censura o condanna della sua opera? È giusto che venga contesta la retrospettiva dedicata a Roman Polanski, accusato di stupro? O che un editore rinunci a ripubblicare i pamphlet di Louis-Ferdinand Céline perché antisemita?

«Penso che non si debba condannare un'opera, per quanto chi l'ha creata sia biasimevole o criminale. André Malraux diceva che Céline era un poveraccio, ma un grandissimo scrittore. La letteratura è sempre più bella di chi l'ha scritta. Ci pensi. Neppure la grande letteratura può salvare il mondo, così come non può salvarlo chi ha commesso crimini orrendi. Ma senza la grande letteratura perdiamo tutti qualcosa. È la natura umana: portare dentro di noi, contemporaneamente, il sublime e il mostruoso. Pensiamo a Shakespeare. Re Lear è un grande sovrano, ma un padre violento. È una cosa che dobbiamo accettare».

Nessuna censura, quindi.

«No. Perché sappiamo che dietro le grandi opere ci sono spesso piccoli personaggi. Ho seguito il caso Gallimard sulla ripubblicazione degli scritti antisemiti di Céline. È sbagliato fare finta che non esistano. Dobbiamo averli davanti agli occhi, anche se dentro hanno idee che non ci piacciono».

Idee e intellettuali. In Francia da tempo c'è un grande dibattito in tv e nei giornali sui Néo-réacs, i «nuovi reazionari» - Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Jean-Claude Michéa... - che, anche da sinistra, danno risposte di destra sui grandi problemi della contemporaneità, dall'Europa all'immigrazione. Cosa ne pensa?

«Penso che io appartengo a una generazione che, da giovane, ha creduto a un'idea di libertà che coincideva con una certa Sinistra. Poi è arrivato il Maggio del '68. Un fallimento completo. Invece che unire intellettuali e operai li ha divisi. E quelli che all'epoca erano scesi in piazza per contestare il potere oggi sono capi-azienda o ministri. Da lì nasce lo scollamento, che paghiamo ancora oggi, tra società e politica».

E i Néo-réacs cosa c'entrano?

«C'entrano. Perché se dopo quell'insuccesso completo che fu il '68 qualcuno ancora volesse fare riferimento agli ideali di libertà di quella Sinistra, passerebbe per naïf o per un utopista. Quindi oggi non resta che andare in senso inverso, a destra.

Quello che fanno, con una certa dose di cinismo, i neo reazionari».

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