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Il "Donald bis" sarà più cauto. Ma cade la prima testa: Sessions

Il "Donald bis" sarà più cauto. Ma cade la prima testa: Sessions

Cravatta blu, pessima abbronzatura, è arrivato a mezzogiorno in un'altalena agrodolce, il presidente americano più odiato dai tempi di Richard Nixon ieri era pacatamente esultante, usando e abusando dell'aggettivo tremendous che alterna a fantastic. Ha perso la House del Congresso e però ha avuto un successo mai visto prima in casa repubblicana al Senato. Senza fare una piega, ha telefonato all'odiata Nancy Pelosi, leader democratica e futura speaker del Congresso, per congratularsi ma più che altro lanciare segnali di disponibilità: facciamo le cose che condividiamo e troviamo un accordo sul resto. Un passaggio assolutamente dovuto nella politica americana perché i numeri parlano un linguaggio univoco: la Casa Bianca senza il parere favorevole del Congresso può andare sì avanti, ma al rallentatore. Dunque, è finita l'era del Trump guascone e sfrontato, anche se ieri, dopo i risultati, il presidente ha messo alla porta il ministro della Giustizia Jeff Sessions, dimessosi su sua richiesta (in attesa del successore, il facente funzioni è Matthew G. Whitaker, capo di gabinetto al Dipartimento di Giustizia). Ora Trump dovrà controllare le intemperanze cui si è abituato e ha abituato il mondo, ma dovrà porre un freno alla sua voracità oratoria.

Eppure The Donald è stato ben attento a non dare segni di resa, o di eccessivo cedimento: ha detto con tono di sfida di essere felice di avere «fermato l'onda blu», dove blu sta per democratico mentre i repubblicani, curiosamente, sono «rossi». Era analitico e calmo, sollevato perché lo scossone che ha ricevuto non è una vera sconfitta, e così si è lasciato andare a una serie di affermazioni ecologiche sull'acqua e l'aria pulita, con cui cerca disperatamente, perché è necessario, di trovare sponda con i democratici. E ha aperto sui prezzi dei farmaci in una ricerca non disinteressata di temi sociali. Trump ha conquistato governatori, un numero record di senatori per i repubblicani (cosa che ha anche un significato generazionale) e si è comunque sentito premiato dalla sua strenua difesa del libero mercato e dalla crescita gigantesca dei posti di lavoro dopo il taglio drastico delle tasse, che ha portato gli afroamericani al punto più alto di benessere, cosa che non era certo accaduta con il presidente nero Barack Obama.

Trump ha il potere di mandare in bestia tutti e crede nella sua rocambolesca capacità di cambiare registro, diventare seduttivo fino alla sfacciataggine, lo sa e gioca con questa sua capacità. Sicché ieri ha sottolineato il fatto che fra lui e gli elettori si è consolidato un feeling basato sul ritorno aggressivo dei principi di concorrenza e libero mercato, protetto però dal più potente esercito del mondo, sapendo che gli americani, anche democratici, non sono ostili al pugno di ferro contro l'Unione europea, che secondo Trump si fonda sullo sfruttamento dell'antica amicizia transatlantica.

Chi ha votato per Trump non sono stati quindi i repubblicani conservatori ma una classe borghese di colletti bianchi, colli abbronzati (agricoltori esportatori) e operai. Per la prima volta da oltre un secolo, i lavoratori americani sono contesi a suon di aumenti dalle fabbriche e questa nuova ricchezza originata dal taglio delle tasse ha in parte tagliato le gambe allo spirito di vendetta dei democratici i quali, politicamente parlando, corrono nel cortile come polli senza resta perché non hanno ancora un leader pronto per la Casa Bianca e fino a ieri la loro unica carta da giocare era attaccare Trump come persona, personaggio, le sue parole, le allusioni sessuali, le smargiassate, aggravate dall'accusa demenziale di razzismo. Se queste elezioni avessero non danneggiato, come appare evidente, ma addirittura paralizzato la presidenza, per l'America oggi sarebbe stato un problema irrisolvibile perché il trumpismo è a metà strada del percorso iniziato ed è praticamente impossibile tornare indietro sulla via percorsa da Clinton e Obama. Lo slogan «America First» non vuol dire, come pretende la sinistra, che gli americani rivendicano il primato sugli altri ma che gli Stati Uniti non intendono più praticare sconti e pagare i conti della sicurezza degli ex alleati.

Trump è in antagonismo raffinatissimo con la Cina esplosiva guidata da un magnifico giocatore come Xi (che lui ha ospitato con grande sfarzo nel suo compound imperiale di Mar A Lago in Florida concedendogli lo svago di un bombardamento in diretta in Siria) e mantiene la partita aperta con la Russia di Putin, cui non concede nulla ma senza rischiare le isterie da guerra fredda dei democratici, giocati come bambini dalle scaltrezze del Cremlino. Trump ha aperto i giochi su tutti i tavoli, dall'Europa all'Iran, disfacendo la rete degli affari europei. Ha retribuito il governo gialloverde italiano perché è una spina nel fianco della Germania concedendo al governo di Roma il permesso di commercio con gli infedeli ayatollah di Teheran, salvo l'intesa per il conto finale, in nome degli interessi americani in Sicilia e il Tap in Puglia in funzione energetica anti-russa. The Donald in due anni ha disfatto il vecchio assetto figlio della seconda guerra mondiale a prezzo di disastrare il vecchio bipartitismo in cui i Democrats potevano far finta di essere sempre i good guys, i buoni che salvano i deboli e le minoranze, e i repubblicani sempre bad guys, i cattivi odiosi, maledetti e ovviamente fascisti.

Lo scontro fra lo statalismo lambito dai Democrats e la libera impresa energicamente promossa da Trump è il vero terreno di gioco, con sullo sfondo il vero scenario di guerra possibile, quello con la Cina e le sue mire sull'Europa e l'Africa.

Paolo Guzzanti

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