Cultura e Spettacoli

Rosset, l'editore fuori-legge dentro l'arte e contro tutti

Edonista e libertario, nel 1952 rilevò la Grove Press e iniziò a pubblicare titoli proibiti e «marginali»

Rosset, l'editore fuori-legge dentro l'arte e contro tutti

«Niente cognac niente film» disse Barney Rosset (1922-2012) ai doganieri che nella Cecoslovacchia neo-stalinizzata del 1948 volevano sequestrare la sua scorta di liquore. Era il regista di Strange Victory, «un rabbioso promemoria indirizzato all'America sul fatto che dovessimo ancora affrontare i nemici del razzismo e del fascismo a casa nostra», e aveva accolto l'invito a proiettarlo in un Paese comunista come un atto di fratellanza ideologica. All'epoca Barney aveva meno di trent'anni, appena quindicenne aveva fondato il giornalino scolastico Sommunista, poi ribattezzato Antitutto, a venti firmato la petizione contro la proposta di restrizioni legali al Partito comunista americano, a 24 ne era diventato un membro. Possedeva, insomma, un pedigree ideologico di tutto rispetto, con tanto di note dell'Fbi a margine, a cui però faceva da contrappunto l'essere figlio di un banchiere, non aver mai frequentato una scuola pubblica, avere già l'auto quando i suoi coetanei andavano al liceo in bicicletta, e considerare noiose le dispute intorno al marxismo. Per quanto si sforzasse, Barney Rosset era soprattutto un edonista o, come da cinefilo si compiacerà di ricordare per meglio far comprendere il perché della sua difesa politica del cognac, era preda «di quello che si potrebbe definire il paradosso di Ninotchka. Amavo il piacere quanto amavo la giustizia». Ninotchka è il bellissimo film con Greta Garbo nelle vesti di un'inflessibile commissaria bolscevica che, sbronza e innamorata, fa il suo Discorso ai Popoli del Mondo: «Compagni, la civiltà sta per crollare, la borghesia è prossima all'estinzione... Ma... non subito... per favore, aspettate. Non c'è fretta... ancora qualche minuto... siamo felici».

Questo misto di «piacere e giustizia» diverrà, pochi anni dopo, il marchio di fabbrica della Grove Press, la casa editrice che Barney Rossett, messa da parte la macchina da presa, rileverà dai precedenti proprietari e trasformerà in un qualcosa di unico: «Non c'era nessuno in ambito editoriale che facesse quello che faceva lui a quei livelli: teatro, letteratura europea, letteratura d'avanguardia, letteratura sessualmente esplicita - nessuno la stava pubblicando in America. Nessuno». Rosset sarà l'editore d Beckett e di Jonesco, di Genet e del marchese de Sade, di Mamet e di Pinter, di Havel e di Kerouac, dell'edizione integrale del L'amante di Lady Chatterley di Lawrence e di Tropico del Cancro di Miller, il primo a combattere e a vincere in tribunale la sua battaglia contro la censura Usa nel nome della libertà di stampa e della grandezza dell'arte. Come riassumerà egli stesso: «È una mia antica convinzione che un autore debba essere libero di scrivere qualsiasi cosa gli o le piaccia, un lettore di leggere qualsiasi cosa e un editore di pubblicare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa».

Giustamente l'edizione italiana dell'autobiografia di Barney Rosset, My Life in Publishing and How I Fought Censorship, esce col titolo L'editore fuorilegge. Cinquant'anni di libri contro (Il Saggiatore, pagg. 338, euro 38; trad. Sarah Barberis), e giustamente nell'introduzione Luca Formenton s'interroga sull'«illusione della filosofia manageriale applicata all'editoria» che a partire dagli anni '80 produsse «nel breve termine utili per i grandi gruppi, ma - immettendo massicciamente nel mercato prodotti seriali - ha contribuito alla desertificazione progressiva del lettore».

La parabola della Grove Press è esemplare in proposito. A partire dagli anni Settanta la Grove Press si ritrovò sotto il fuoco di fila del femminismo Usa in versione sindacalizzata: «Niente più ville a Long Island per il grande capo-maschio Rosset» dicevano i volantini delle attiviste che ne occupavano gli uffici. Nelle marce intorno alla sede il grido era: «Fai i tuoi soldi sull'oscenità. Dà quei soldi alle donne nere d'America». Come commenterà a freddo Rosset: «Politicamente è saltato tutto. Se sopprimi l'arte erotica, qualsiasi cosa sia considerata troppo sessuale, e combini questa tendenza con una generica discriminazione contro le donne attuata in molteplici modi, ti ritrovi ben avviato verso il fascismo». In nome del comunismo, ma fa lo stesso...

Poi ci furono le battaglie sindacali, contro le paghe ritenute tropo basse, contro le discriminazioni e «ogni giorno l'edificio veniva evacuato in seguito a telefonate di allarme bomba o incendio». Nel decennio dei Settanta lo staff della Grove Press si ridusse a nove impiegati. A metà degli anni Ottanta un'ereditiera Getty si offre per rilanciare la casa editrice, due milioni di dollari è il prezzo dell'acquisto con Barnett sempre al comando per i successivi cinque anni. Verrà fatto fuori a contratto firmato. «L'editoria negli Stati Uniti era diventata di colpo un'industria di grandi conglomerati aziendali, con un occhio per i libri di genere con un mercato sicuro... Questo rappresentava un tipo di censura diverso, basato sui soldi, anziché la censura e la repressione del cosiddetto osceno». Tempo cinque anni e la Grove Press verrà messa all'asta. Non sempre i soldi fanno un editore...

Il corto circuito dei Settanta che fu l'inizio della fine della Grove Press, rimanda alla celebre e ormai stereotipata definizione coniata all'epoca da Tom Wolfe sull'onda del party offerto dal Leonard Bernstein per raccogliere fondi per le Pantere nere: radicalismo chic. I ricchi di sinistra «offrivano champagne a quelli che li avrebbero impiccati». Non sono però sicuro che quella definizione sia per Barnett la più calzante. Era più libertario che marxista, più edonista che comunista, più innamorato della letteratura che dell'ideologia, anticonformista sempre e comunque e senza troppi sensi di colpa nello spendere soldi per il proprio piacere visto che ne spendeva altrettanti nella difesa della sua libertà di editore.

Radical chic, gauche au caviar, champagne socialist hanno paradossalmente accompagnato nell'arco del Novecento la lunga mutazione della sinistra, finendo con l'identificare la parte, ceto medio e ceto medio più o meno alto, acculturato e abbiente, con il tutto, proletariato e classe operaia. All'inizio di quest'anno, Repubblica, nel tentativo di parare un infortunio - la pubblicazione di un'intervista proprio a Tom Wolfe in cui lo scrittore americano metteva alla berlina il lettore ideale di quel giornale, ovvero il prototipo del radicalismo chic, la sinistra che andava in via Veneto - è ricorsa al cannone e al canone moralista di Michele Serra. La tesi di fondo era che «il ricco di sinistra» almeno rischiava, mentre quello di destra no: il primo, infatti, voleva «cambiare l'uomo», «un azzardo quasi pazzesco» scriveva compunto e orgoglioso Serra. Tralasciando il fatto che a un «uomo nuovo» pensarono anche il fascismo e il nazionalsocialismo, il che qualche riflessione più generale sull'«azzardo quasi pazzesco» dovrebbe suggerirla, la ricostruzione storica di una sinistra elevatrice e di una destra affamatrice non sta in piedi. A fine '800 la Prussia bismarkiana e poi Germania guglielmina era socialmente parlando all'avanguardia, senza per questo far parte di quell'«eresia marxista» che, stando a Serra, aveva lo scopo di «cambiare il popolo». Più in generale, per tutto il '900 «l'eresia marxista» non fu altro che «il tragico errore», come Serra pudicamente lo chiama, del comunismo, consistente nello sparare a palle incatenate contro qualsiasi riformismo socialista, proprio perché non si proponeva di «cambiare l'uomo», ma molto più umanamente di migliorarne le condizioni. Cosa che, con alterna fortuna, cercarono di fare i governi conservatori e/o liberali, ovvero quell'indistinta destra serriana «scettica sulla natura umana e sui destini della società».

È curioso, per chiudere, e restando all'Italia, che il recupero di un socialismo d'antan provenga, facendo finta di nulla, dalle fila ideologiche di quel comunismo che per tutto il secolo scorso quel socialismo derise, il social-fascismo traditore, la socialdemocrazia venduta, il social-craxismo dei lestofanti, contro cui il Pci inalberava dialetticamente prima la bontà del marxismo leninismo, poi dello stalinismo, del compromesso storico e dell'eurocomunismo, infine della «questione morale» intesa come diversità antropologica, proprio perché, ma sì, non voleva far stare meglio chi stava peggio, roba da socialisti minus habens, voleva nientepopodimeno che cambiare l'essere umano...

Come diceva Barneye Rosset, «non volevo trascorrere tutto il mio tempo con tutti quei marxisti che disprezzavo. Ed era difficile; facevo fatica a stare in un gruppo numeroso di persone.

Erano così noiose».

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