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Hans Kelsen e il positivismo che scatena il potere illiberale

Teorico del «normativismo», le sue idee influenzarono la repubblica di Weimar. E ne seguirono il destino

Hans Kelsen e il positivismo che scatena il potere illiberale

Un grande liberale, economista e filosofo politico come Friedrick von Hayek criticò con asprezza le tesi giuridiche e politiche di Hans Kelsen (1881-1973), lo studioso passato alla storia come il maggiore esponente del «formalismo giuridico» o «normativismo» cioè di quella concezione, di stampo positivistico, che stabilisce un collegamento stretto fra i concetti di diritto e di norma. Per Kelsen, che fu il padre della costituzione austriaca dell'immediato primo dopoguerra e le cui idee influenzarono la costituzione della Repubblica di Weimar, lo Stato si identificava con l'ordinamento giuridico e soltanto in questa identificazione, tutta formale e formalistica, che metteva da una parte le cosiddette «libertà fondamentali» o qualsiasi riferimento a concetti metagiuridici, trovava giustificazione. Quella di Kelsen era una concezione che finiva per risolversi, come egli avrebbe ammesso, in «una emancipazione della democrazia dal liberalismo».

Ebbe facile giuoco il liberale Hayek, dunque, pur molti decenni dopo la sua elaborazione, a tacciare la teoria kelseniana di «illiberalismo» perché - proprio in base alle sue premesse e partendo dalla definizione «formale» di Stato di diritto - persino uno Stato dispotico o totalitario avrebbe dovuto essere inserito fra gli Stati di diritto. Un altro grande studioso, pur egli di orientamento liberale, Bruno Leoni, avrebbe costruito il proprio edificio teorico, per molti aspetti riconducibile al liberalismo di Hayek e della cosiddetta «scuola austriaca», attraverso una serrata critica al formalismo giuridico di Kelsen e a tutto il giuspositivismo di '800 e '900.

Hayek e Leoni hanno portato avanti le obiezioni di natura liberale a una concezione del diritto e della politica che venne contestata, naturalmente, anche da chi, come il grande giurista e politologo tedesco Carl Schmitt, era tutt'altro che un liberale e si riallacciava, anzi, a filoni speculativi eterogenei che riuscivano a coniugare il realismo politico di un Machiavelli e di un Hobbes con il tradizionalismo di un de Maistre e di Juan Donoso Cortés. Carl Schmitt, che ha legato il suo nome all'idea della politica come terreno di incontro e scontro della coppia amico-nemico e che ha formulato il concetto di «decisionismo» come attributo essenziale della sovranità, aveva contestato subito le teorie di Kelsen perché gli sembravano svuotare il concetto di Stato riducendone la funzione a mero produttore di norme giuridiche. In realtà l'opposizione di Schmitt a Kelsen discendeva anche dal fatto che i valori impersonati dal «normativismo» erano alla base della repubblica di Weimar, ne sostanziavano la costruzione giuridica, ne esprimevano l'essenza borghese e democratica. E proprio in Weimar, Schmitt - e con lui tutti gli autori che, da Spengler a Jünger e a tanti altri, espressero la cosiddetta «rivoluzione conservatrice» - intravvedeva il simbolo della disfatta e del disfacimento morale della Germania, risultato della umiliazione subita a Versailles.

La fine ingloriosa della repubblica di Weimar a seguito dell'avvento del nazionalsocialismo mise sul banco degli imputati la concezione stessa della democrazia quale era stata pensata da Kelsen e, più in generale, la stessa idea del formalismo giuridico che la sottintendeva. La fragilità del sistema politico weimariano, l'instabilità governativa e la frammentazione partitica che lo caratterizzarono furono all'origine, nella letteratura politologica e nella polemica politica, di quella «sindrome di Weimar» che viene periodicamente riproposta facendo ricorso al troppo facile gioco delle analogie. Ancora oggi, in Italia lo spettro di Weimar e di una temuta deriva autoritaria torna di attualità di fronte alla crisi dei partiti storici.

Per conoscere il vero pensiero di Kelsen è utile la lettura di due brevi studi che egli scrisse nella prima metà degli anni Venti e che - editi per la prima volta in Italia in pieno regime fascista dal cenacolo pisano raccolto attorno alla rivista Nuovi studi di diritto, economia e politica diretta da Arnaldo Volpicelli - vengono ora riproposti con il titolo Due saggi sulla democrazia in difficoltà (Aragno Editore, pagg. XXII-140, euro 13, a cura di Mario G. Losano). Vi è sintetizzata la sua idea di una democrazia fondata sul parlamentarismo e sulla rappresentanza proporzionale: un sistema che postula, attraverso il compromesso e il rispetto reciproco, la collaborazione fra maggioranza e minoranza. Alla base di questa continua ricerca di compromesso c'è un atteggiamento speculativo che rifiuta l'esistenza di ogni «valore assoluto». Non a caso Kelsen afferma: «il relativismo è la premessa filosofica del pensiero democratico». E può aggiungere che la rappresentanza politica è una «finzione» dal momento che la volontà espressa dal parlamento non può mai coincidere con la volontà dell'intera popolazione. Una finzione, per molti versi, necessaria perché non è possibile realizzare pienamente la democrazia diretta di derivazione rousseauviana: quella democrazia diretta che oggi in Italia costituisce il «mantra» dell'universo politico pentastellato.

L'elemento di debolezza della concezione di Kelsen sta non tanto nel parlamentarismo in sé quanto nella sua fiducia acritica in un proporzionalismo puro che conduce - lo si vide bene proprio nella esperienza di Weimar - a una frammentazione del quadro politico generale e all'instabilità governativa. Egli stesso se ne dovette ben rendere conto quando si affrontò il problema teorico della crisi del parlamentarismo, ben presto divenuto oggetto degli strali sia del «decisionismo» schmittiano sia di chi a esso proponeva una alternativa di tipo corporativo. E non è certo un caso che egli proponesse rimedi come l'introduzione del referendum o l'abolizione delle immunità dei parlamentari. La verità e che, alla prova della storia, il parlamentarismo puro, basato su una concezione tutta formalistica e positivistica del diritto, si è dimostrato permeabile a degenerazioni di tipo autoritario.

Quel che manca alla concezione di Kelsen è proprio quella pulsione e anima liberale che costituisce il connotato irrinunciabile di un'autentica «democrazia liberale» e che, al di là di ogni formalismo giuridico, costituisce un baluardo contro ogni suo possibile stravolgimento.

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