Cultura e Spettacoli

Perché brindare alla letteratura da "Bar"

Sui tavolini dei locali dove si beve e si scrive nasce una filosofia esistenziale

Perché brindare alla letteratura da "Bar"

Cosa sarebbe la nostra vita senza i bar? Non per altro molti grandi scrittori erano anche grandi frequentatori di bar, da James Joyce a Charles Bukowski, da Henry Miller a Francis Scott Fitzgerald, da Charles Baudelaire fino a Samuel Beckett. Probabilmente, se togliessimo i bar, sparirebbe gran parte della letteratura mondiale, gli scrittori non avrebbero saputo dove andare quando non scrivevano o quando scrivevano, dove se non in un bar? Dove anche io ho scritto i miei quattordici libri, sentendomi porre sempre la domanda: «Ma perché scrivi al bar?». Già, perché?

Ho sempre risposto perché stare a casa mi opprime, nel silenzio e senza vedere nessuno mi distraggo troppo, ma la risposta l'ho trovata nella raccolta di racconti Bar, libro d'esordio di Donato Novellini, edito da Giometti & Antonello. Novellini ha il talento di eccellere in descrizioni minuziose senza mai annoiare e passando di bar in bar tesse la trama di una vera e propria filosofia esistenziale. Sa, per esempio, che talvolta «non si beve per scrivere, si scrive per bere». Il bar dove si va per lasciar fluire i pensieri nell'alcol, dove il tempo scorre in maniera diversa, «un tempo di mezzo, qualcuno lo chiama oblio degli alcolici, qualcun altro innocuo aperitivo, in realtà è l'unica cosa importante in un pubblico esercizio, e forse, in generale, nella vita».

Ah, e il bar dove ci si innamora ogni volta della cameriera di turno? È un classico: chi di voi non ha vissuto amori immaginari separati da un bancone? Con Novellini ho capito che le muse ispiratrici di tutti i miei romanzi sono sempre state cameriere, con le quali non c'è mai stato niente, ignorando oltretutto la loro vita fuori dal bar, come venissero da un altro mondo. Tant'è che quando ti capita di vedere il fidanzato della cameriera, che magari viene a prenderla quando lei stacca, non ti sembra reale, è un intruso nell'immaginazione, cosa vuole? Le ragazze che lavorano nei bar non dovrebbero avere nessuno. Neppure te, che sei lì per immaginare, ma anche nessun altro.

A volte si manifesta la passione con gesti minimi, come l'anziano signore di un racconto di Novellini che di fronte all'avvenente cassiera «si toglie il cappello, nel gesto d'omaggio, con gli occhi lattiginosi in emicicli d'occhiaie, che prendono vita come per miracolo». Un libro strabordante di amori non vissuti, vivisezionati dallo sguardo da flâneur del narratore, dal sapore anche proustiano, e d'altra parte gli amori dei bar sono belli perché impossibili, dove «si guarda senza guardare, si controllano gli occhi della cameriera in modo fosco, senza volontà, al solo scopo di intuirli distratti e, solo allora, ladrescamente, ci si avventura in quel mezzo secondo di splendida inutilità tra carni inviolabili». Anche perché «il presente del cliente è tutto dipinto in false confidenze».

Confidenze tanto più vere quanto più false, infatti non bisogna mai frequentare lo stesso bar, ha ragione Novellini, «traditore seriale di bar», in quanto «l'insistita frequentazione porta a nefaste conseguenze, tipo un servizio peggiore con l'instaurarsi della confidenza», e nel bar si conosce il mondo profondamente purché tutto resti rigorosamente in superficie. Tuttavia, navigando con la mente sulla superficie, talvolta viene perfino fuori un libro profondo, divertente e malinconico come questo. Da leggere.

Magari proprio al bar.

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