Controcultura

Busmanti e la nobiltà di vivere a regola d'arte

Uno stile intessuto di arcaica eleganza lo tenne sempre molto lontano da mode e competizioni

Busmanti e la nobiltà di vivere a regola d'arte

Alcuni, morendo, sanno di perdere vaste porzioni dell'infinito spettacolo del mondo; ma non lo diminuiscono. La scomparsa di Eugenio Busmanti è stata invece una perdita per il mondo che, senza il suo sorriso, la sua pena, la sua ironia, è più povero. Nessuno potrà sostituirlo. Egli è stato, veramente, unico. La fine di un'epoca. Eugenio apparteneva a quella rara specie di uomini che ci stupiscono, che ci fanno credere al valore della diversità. Se ne incontrano pochi, e non sempre sono amici. Più spesso sono la coscienza inquieta, critica, del mondo, stravaganti, ribelli anche se entro un codice di regole riconosciute. E difficilmente si adatteranno a un ordine di cui pure hanno nostalgia. Insufficiente definirli eccentrici, snob, dandy, misantropi. Certo un uomo solo Eugenio lo era. Solo, ma non solitario. Solo e unico. L'umanità tende a omologarsi o a credere di essere distinta o diversa, di epoca in epoca, grazie alle mode. Ma è diverso soltanto chi resiste alle mode, chi le contrasta anche senza volerlo, per necessità di vita, ovvero per essere vivo. Per lui era una necessità, per gli altri, per noi, una delizia. Chi lo ha conosciuto ne ricorda l'acutezza e l'originalità delle osservazioni, e la capacità di animare qualunque discussione nello spazio di un salotto aristocratico nel quale Eugenio aveva il suo habitat naturale. E non era soltanto mondanità: era disagio della propria condizione borghese e volontà di autorappresentarsi come in una continua situazione teatrale. Nessuna bizzarria, nessuna provocazione, soprattutto per chi, come lui e come me, si era formato negli anni della contestazione studentesca in una dimensione forzatamente politica che Eugenio non poteva accettare. L'alternativa al nuovo mondo fu per lui il «bel mondo» nella dimensione più mondana e cosmopolita.

Eravamo ragazzi all'Università di Bologna, studenti nell'aula di Storia dell'arte che era stata di Roberto Longhi, freschi allievi di Francesco Arcangeli. Qualcuno fra noi sembrava più maturo, o più esperto. Uno, in particolare, appariva anomalo, in quegli anni di tumulti, di passione e confusione, di esaltazione per il desiderio di cambiare il mondo (parlo del tempo tra il 1968 e il 1974): vestiva in giacca blu con i bottoni d'ordinanza d'oro, i pantaloni grigi con il risvolto, la cravatta stretta; distante da tutto, manifestava la sua estraneità ai riti e gli abiti della contestazione, rimpiangeva quell'ordine che stava per essere travolto per sempre. Continuava a vivere nei fiammanti e romantici anni '60. Questo era, e questo è stato, Eugenio Busmanti. Il cognome, unico in Italia, richiamava quello di un avo: lo studioso Silvio, autore di un'utile guida di Ravenna. Originario di Lugo di Romagna, dove i suoi avevano le terre, benché nato a Bologna, Busmanti era in antichi rapporti con la mia famiglia, perché il padre era fornitore farmaceutico con sede a Ferrara nel corso Ercole d'Este, e mio padre farmacista a Ro, nel Ferrarese.

Benestante, Eugenio, negli anni universitari ci accoglieva nella sua bella casa, animata dalla garrula madre, e allietata da quadri belli e rari. Così ci apparve nella prima visita: a me, da lui osservato come uno strano animale, nel fuoco del mio assoluto individualismo, e a Paola Marini che fu poi direttrice di tutti i musei veneti, da Bassano a Verona a Venezia, e che mi introdusse al curioso padrone di casa per farci familiarizzare, pur tanto diversi, avendone compreso le arcane affinità e le non inconciliabili diversità. Eravamo, in quel mondo e in quegli anni, diversi. E tali siamo rimasti. Nel seguito io feci molto, e lui, tendenzialmente, nulla; o pochissimo, astenendosi da inutili confronti o competizioni, estraneo a ogni ruolo ufficiale o carriera. Studioso per amore degli studi, e non per avere un posto o una cattedra, mai fece concorsi e mai insegnò. Mai fu assistente e sempre rispettoso e ammirato dai nostri e dai suoi maestri, da Arcangeli a Carlo Volpe e Carlo Bo. Quest'ultimo, il magnifico rettore di una Università da lui stesso fondata a Urbino, gli fu quasi un secondo padre. Poi le nostre strade si separarono: io feci quello che ho fatto; e lui si rifugiò in una Bologna accogliente di case e di palazzi, di amici sempre ricchi o aristocratici, che avevano il privilegio di accoglierlo con il dono della sua feconda e faconda dottrina. Un altro Eugenio era stato, soprattutto nell'arte di conferenziere prima che di animale mondano, un precursore, per amabilità e civetteria, di Busmanti: Eugenio Riccomini, lo studioso d'arte più dotato, dopo i maestri, a Bologna, e reso amabile, soprattutto alle signore, per la bella conversazione e la bella scrittura.

Intanto Eugenio continuava a restare nell'ombra, vivendo nella bella casa dei genitori, fra i quadri di Emilio Savonanzi, di Pier Dandini, di Ignazio Stern, di Antonio Cavallucci, di Filippo de Pisis. Finalmente, sul finire degli anni '80, si manifestò. Non con un libro o con una cattedra, ma con una casa, la bella casa di via Marsala 20, con un arredo e una collezione di dipinti rara e preziosa, due portentosi Mastelletta di soggetto biblico (David e Abigail e Sansone e Dalila) già appartenuti a Vincenzo Giustiniani, un Barbelli, un Pelagio Palagi, due Bertuzzi, detto l'Anconetano, una biblioteca su due livelli disegnata da lui, e varie e rare calie, tanto da farne una riedizione di quella in Strada maggiore di Piero Buscaroli, e soprattutto dell'inarrivabile prototipo dell'amatissimo anglista romano, modello di vita e di studi, tra curiosità e capricci, nella comune ammirazione per il mondo neoclassico. Insomma: la casa della vita. E non solo la sua. Lì passai beate giornate bolognesi, e lì scoprì la bellezza del suo spirito e l'arcaica eleganza della sua colta e coltivata conversazione l'amatissima Sabrina, che fu amica e sorella di Eugenio. Quella casa fu per lui tempio e ragione di vita, con il continuo stimolo delle tante curiosità bolognesi e del primo salotto della città che la provvidenza aveva voluto di fronte a casa sua: la maestosa casa con la leggendaria biblioteca di Flavia Gazzoni. Quanti ricordi! Quanti incontri! Quante evanescenti, e pur consolidate, amicizie, tra finzione e ipocrisia, in un incrocio tra innumerevoli maschere!

Venne poi, anche per Eugenio, il momento del lavoro, di altissima diplomazia, e fu un mio dono e una mia insidiosa astuzia: chiamarlo come mio consigliere al ministero per i Beni culturali. A Roma! Nell'amatissima Roma, frequentata da ufficiale, nella caserma della Cecchignola dove aveva fatto il soldato, unico impegno conosciuto nella sua vita, prima di diventare il gran cerimoniere dei miei uffici a fianco di Alain Elkann, di Peter Glidewell, di Dario Del Bufalo, di Roberto Saporito. Una vera e propria corte di giovani uomini, colti e potenti, in un momento pieno di illusioni e di speranze, all'inizio di un nuovo secolo e di un nuovo millennio. Ero riuscito a farlo lavorare, a mettere a frutto il suo ingegno. Ci siamo compiuti lì; poi io me ne sono andato, e lui è rimasto al ministero, nascosto in quelle stanze segrete come un bene prezioso di cui si era perduta la consapevolezza. Poi il rientro a Bologna, le amiche devote e gli amici di sempre, la protezione di una città calda e amata della cui infinita bellezza Eugenio, come nessuno, fu innamorato. Nel privilegio e nella vanità di viverci.

E qui, immerso, si è dissolto, lasciando traccia della sua disperata grazia in chiunque lo ha conosciuto.

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