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La Cina sbarca in Europa e lancia l'opa sui porti

Dal Pireo a Trieste, la strategia di Pechino è chiara: avere il controllo delle principali rotte commerciali

La Cina sbarca in Europa e lancia l'opa sui porti

Per i cinesi è la Nuova Via Marittima della Seta. Un nome gentile ed evocativo in cui è difficile intravedere la potenziale minaccia. Eppure c'è. È sottile come la seta. Entra nel Mediterraneo, penetra l'Europa e l'avvolge in un'invisibile matassa capace d'arricchirla, ma anche di trasformarla nella nuova periferia dell'Impero cinese. Non è fanta-economia. È lo scenario della guerra commerciale con cui Pechino punta a impossessarsi dell'Europa, controllandone rotte commerciali, porti e merci. Una guerra iniziata alle porte del Pireo, proseguita a Zeebrugge, piccolo porto belga del Mare del Nord e pronta a chiudersi con la conquista dello scalo di Trieste, fondamentale per il controllo dei commerci sull'asse settentrionale e orientale dell'Europa. Due assi su cui la Cina ha già messo gli occhi. A nord per ora c'è Zeebrugge. A est c'è il 16+1, la formula commerciale attraverso cui Pechino lega a sé 12 membri dell'Unione Europea (Bulgaria, Estonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Macedonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Croazia) e quattro Paesi ancora extra Ue come Albania, Bosnia, Serbia e Montenegro. Tutto inizia nel 2010 mentre la Germania di Angela Merkel incita a piegare sotto i colpi della trojka una Grecia colpevole di mettere a rischio, con i suoi bilanci taroccati, le banche tedesche e francesi. L'America di Obama intanto ci spinge, d'intesa con Bruxelles, allo scontro con la Russia di Vladimir Putin. In questo scenario confuso e fuorviante, la Cina ne approfitta per abbozzare il tracciato europeo della Via della Seta. La prima casella del risiko si chiama Pireo. È il porto simbolo della Grecia, ma la Cina se lo compra per un tozzo di pane. Berlino e Bruxelles interessate solo a far pagare i debiti ad Atene guardano altrove. Così la Cosco (China Ocean Shipping Co.), una società marittima controllata dallo Stato Cinese, compra le prime quote del Pireo. Oltre a essere la quarta società mondiale nel movimento di container, la Cosco è anche la capofila a cui Pechino ha delegato la penetrazione nel Mediterraneo. Ma per gli euroburocrati, il Pireo è uno scalo di secondaria importanza e così a Bruxelles nessuno batte ciglio. Sei anni dopo il 68enne capitano Fu Cheng Qiu - un ex Guardia Rossa della Rivoluzione Culturale, oggi responsabile delle operazioni della Cosco al Pireo - conclude l'acquisizione del 67 per cento delle azioni del porto. Da quel momento la Cosco, che intanto ha investito 600 milioni di euro e ne ha pronti altri 300 - ha il totale controllo dei terminal da cui partono container, navi da crociera e traghetti. Sotto la sua regia il Pireo si sviluppa a un ritmo senza pari nel mondo arrivando a muovere ogni anno 20 milioni di passeggeri. Ma Pechino non si ferma al Pireo. In dieci anni la Cosco e altre controllate cinesi acquisiscono partecipazioni in altri sette porti europei fra Italia (Vado Ligure), Belgio (Zeebrugge, Anversa), Spagna (Valencia e Bilbao), Francia (Marsiglia) e Olanda (Rotterdam) conquistando il controllo del 10 per cento del movimento container del Vecchio Continente. La strategia cinese si dipana soprattutto attraverso investimenti in piccoli scali come Zeebrugge e Vado Ligure. A Vado Ligure Cosco Shipping Ports e la Qingdao Port International Development acquisiscono il 49% del futuro terminal container. Il 50,1% resta della Maersk, la compagnia danese regina del settore, a cui i cinesi si preparano però a far sentire il fiato sul collo. Non a caso la scalata cinese a Zeebrugge, il secondo porto belga, coincide con il ritiro dal terminal container della Maersk. Ma per capire la pervasività delle strategie cinesi bisogna guardare dietro al Pireo. Lì la Cina finanzia il network ferroviario - concordato con Ungheria e Serbia nell'ambito del 16+1 e finanziato dall'«Export Import Bank Of China» - che collegherà il Pireo a Budapest e Belgrado. In questo schema geo-politico-commerciale il tassello che manca è Trieste. Oggi il suo porto è solo all'undicesimo posto delle classifiche europee per movimento merci. E benché il movimento container sia aumentato del 150 per cento, il traffico resta un quinto di quello del Pireo. A far gola ai cinesi è, però, la rete ferroviaria collegata ai suoi terminali. E più ancora il suo status di porto franco che consente il fermo merci senza tasse. Grazie a queste due specificità Trieste può diventare lo snodo tra Zeebrugge, Est Europa e Pireo. «I cinesi sono attratti dalla posizione geografica e dalle connessioni con l'Europa spiega il presidente dell'Autorità Portuale triestina Zeno D'Agostino - confermando l'interesse cinese all'espansione e alla modernizzazione dell'aerea del porto franco, dell'area industriale e del sistema ferroviario interno». Disegni per cui sono pronti a investire oltre 1 miliardo. Soldi che nessun investitore nazionale può garantire. Ma la domanda è «in cambio di cosa?». D'Agostino risponde ricordando che l'Italia non è la Grecia del 2010 e il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti sottolinea che le quote di controllo del porto di Trieste non passeranno in nessun caso sotto il controllo dei cinesi. Di certo neppure il governo greco pensava, nel 2010, di legarsi mani e piedi a Pechino. Nel 2017 la Grecia ha, però, bloccato una dichiarazione dell'Unione Europea che condannava la repressione di attivisti dei diritti umani e dissidenti in Cina. Una mossa in linea con quell'«obbedienza preventiva» già esibita da tanti partner africani sempre pronti ad allinearsi al voto cinese in seno all'Onu. Da lì a diventare sudditi il passo è breve. Mentre al Pireo fanno scalo le prime navi militari cinesi, Gibuti sta diventando la prima base della Marina militare di Pechino in Africa. E lo stesso sta succedendo ai porti di Pakistan e Sri Lanka finiti in mani cinesi. E così qualcuno a Bruxelles inizia a svegliarsi. Lo scorso settembre il presidente della commissione Europea Jean-Claude Juncker ha proposte misure di controllo sugli investimenti di compagnie straniere intenzionate «a comprare porti europei, parte di infrastrutture energetiche o sigle della difesa».

Seppur con dieci anni di ritardo, comincia pure lui a intravedere il pericolo.

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