Controcultura

In un film di culto anni '70 la rabbia dell'Italia di oggi

La pellicola di Umberto Lenzi fece di Tomas Milian un'icona «di genere». Un saggio spiega come. E perché

In un film di culto anni '70 la rabbia dell'Italia di oggi

Via Varsavia, a Milano, è una lunga pennellata di grigio, un rettilineo plumbeo come la canna di un fucile appoggiato di fianco all'Ortomercato, a fargli da guardia armata. Oggi via Varsavia va a morire, accompagnata da processioni di zingari, sotto la linea ferroviaria che porta alla fermata Porta Romana. Ma quand'eravamo ragazzini sembrava un buon posto, per giocarci a pallone, passavano così poche macchine che per contarle bastavano le dita di una mano in tutto il pomeriggio.

Due notti fa sono tornato laggiù, ma senza andarci fisicamente, non era il caso, essendo armato soltanto di carta e penna. Ci sono tornato, riavvolgendo una pellicola lunga 44 anni, comodamente su Youtube, digitando Milano odia: la polizia non può sparare. Ed eccolo lì, al minuto 4 e 57 secondi del film di Umberto Lenzi datato 1974, il mio piccolo San Siro di allora, con l'erba giallastra e i tetri palazzoni sullo sfondo. Sul prato ingombro di rifiuti (tenete a mente questo particolare importante, i rifiuti), un mucchio di cassette per la frutta è in fiamme e una volante della polizia ci finisce in mezzo a tutta velocità. L'Alfa Romeo Giulia sta inseguendo una Citroën (omaggio ai noir francesi?) che ha a bordo quattro rapinatori. Anzi tre rapinatori più il loro autista-palo che ha sbroccato: innervosito da un vigile che gli contestava il divieto di sosta mentre i suoi compari rapinavano una banca, l'ha fatto secco con un colpo di pistola. Da qui la fuga, dopo aver preso un bimbetto in ostaggio.

La nostalgia per i miei quattordici anni di allora, due notti fa aveva uno strano gusto dolceamaro. Da una parte c'erano la mamma e il papà e i nonni e gli amici e le amichette e la scuola e il Milan e tutto il resto di ciò che era buono. Dall'altra c'era il molto, il troppo che era cattivo. Come quella volta che, siamo sempre lì in zona, sia in termini di tempo (sempre il 1974, se ricordo bene), sia in termini di location (sempre via Varsavia, ma trecento metri più a nord), sul terrazzo di casa un giorno udii distintamente un lontano crepitìo. Sembrava quello dei mortaretti a Capodanno, e invece era primavera, e invece era una mitragliatrice: rapina alla banca all'angolo con via Monte Velino, sparatoria, un edicolante (il nostro edicolante) ferito, un criminale morto. E d'accordo che allora avevo tredici anni, ma la strage di piazza Fontana mi rimbombava ancora nelle orecchie, in quel '74 che, fra tante morti, segnò la nascita di un'icona cinematografica «di genere», Tomas Milian. Infatti era lui Giulio Sacchi, l'autista-palo troppo su di giri che passerà dal fallimento, cioè dall'espulsione, previo pestaggio, dalla banda di Vito Maione, alla grandguignolesca corsa verso il successo personale che infine non riuscirà a raggiungere per colpa (merito) di un commissario fuorilegge. Ecco perché Milano odia, perché la polizia non può sparare se non uscendo dal recinto della legge.

A rivedere il film dopo una vita mi ha portato il libro di Paolo Spagnuolo (Milieu edizioni, pagg. 272, euro 22,90) che s'intitola esattamente come l'opera di Lenzi. Questa «Storia di un cult nell'Italia degli anni settanta», così recita il sottotitolo, è un'accurata perlustrazione all'interno e soprattutto all'esterno del set che raccoglie le testimonianze del regista, dello sceneggiatore, della star di tripla importazione, nel senso che veniva a Milano da Cuba via Stati Uniti e via Roma, dei comprimari. Con i ritagli dei giornali dell'epoca i cui titoli e i cui toni riecheggiavano in quelli dei contemporanei «poliziotteschi» (ma qui tale vocabolo che sa un po' di sbracatura non compare mai, si parla sempre, e con dignità, di «poliziesco»), con una ricca iconografia fra locandine e foto di scena, con i visti della censura e con la sceneggiatura originale dattiloscritta, cui vennero apportate non marginali modifiche. Nel libro dell'avellinese Spagnuolo che quattro anni fa aveva quasi giocato in casa dedicandosi all'esegesi di un altro lavoro di Lenzi, Napoli violenta del '76, troviamo inoltre alcune prelibatezze per cinefili dal palato finissimo. Ad esempio un contratto saltato, nell'88, per la vendita in Corea del Sud di una camionata di vhs del film. Oppure il ritocco a salire al contratto di Lenzi che da otto milioni di lire sarebbe salito a dieci a condizione di: 1) non superare i 15mila metri di pellicola; 2) non sforare le sette settimane di lavorazione; 3) presentare la copia campione alla casa di produzione Dania Film entro l'1 luglio 1974; 4) usare «materiale di repertorio» per gli inseguimenti di auto. Ebbene sì, la «mia» via Varsavia con la rüera che brucia era già comparsa in Milano trema: la polizia vuole giustizia di Sergio Martino ('73). E comparirà poi in Roma a mano armata di Lenzi ('76). Del resto, eravamo tutti in piena austerity, e le automobili, private o pubbliche, spesso avevano il freno a mano tirato.

Chi invece andava, dietro la macchina da presa, costantemente a tavoletta senza mai risparmiarsi era Lenzi, il regista morto nell'ottobre dell'anno scorso. Il suo stile burbero e incazzoso si attagliava perfettamente all'atletismo delle scene e alla durezza della trama. E le cose non le manda certo a dire. Come quando ricorda l'incontro con quello «stronzo» di Marc Porel (pace comunque anche all'anima sua) che il produttore Luciano Martino aveva scelto per la parte del cattivo, contrapponendogli il buono, il tutore della legge (pardon, della giustizia, non è esattamente la stessa cosa) Henry Silva, con la sua faccia marmorea e inespressiva che in qualche modo ricorda un altro Giustiziere, quello della notte interpretato, oltreoceano ma nello stesso anno, dal mitico Charles Bronson. Lenzi aggiunge che fu Ray Lovelock, con Gino Santercole nel ruolo di sottoposto del self-made-gangster Giulio Sacchi, a proporre, in sostituzione del bocciato Porel, il suo amico Tomas, con il quale aveva inciso un paio di dischi e giocava spesso a pallone. A colpi di vodka e di certe pasticche che teneva in tasca, Milian entrò come la mano in un guanto nel personaggio di Giulio Sacchi, in un crescente delirio di onnipotenza che lo porta prima a rapire la figlia di un cumenda chiedendo mezzo miliardo di riscatto, poi a uccidere chiunque si ponga sulla sua strada che porta dritto all'inferno. Il climax si raggiunge nel villino dove si rifugia la preda (una Laura Belli che confessa candidamente di aver avuto, all'epoca, altre idee per la testa, e di considerare il poliziesco o poliziottesco che dir si voglia poco meno che una seccatura). E chi vorrà rivedere o vedere per la prima volta il film capirà facilmente anche dove si abbatté la mannaia della censura.

Detto, con tutto il rispetto dovuto al maestro, che anche la colonna sonora di Ennio Morricone è in linea con la citata austerity, cioè poche note qua e là che comunque contribuiscono a far lievitare la tensione, concediamo l'ultima parola proprio a lui, al maledetto Tomas Milian (morto il 22 marzo 2017) alias Giulio Sacchi: «Morire nella monnezza è stata una mia precisa volontà e forse anche una rinascita. Dopo aver girato il finale di Milano odia, con questo decesso così potente, mi venne l'idea di chiamare Monnezza il mio personaggio dei film successivi con cui ancora oggi vengo ricordato». Sacchi, infatti, viene freddato dal commissario Walter Grandi su un cumulo di rifiuti. Sul pattume si era aperto il film, nella «mia» via Varsavia, e sul pattume si chiude.

Anche un poliziottesco sa essere profetico: Milano ancora non lo sapeva, ma era già una terra dei fuochi.

E oggi, dopo 44 anni, odia più di prima.

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