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La casa dove i bambini imparano cos'è l'amore

La casa dove i bambini imparano cos'è l'amore

C'è fermento tra i corridoi della comunità per minori Buon Pastore di Milano. Michela, 23 anni, si sta per laureare in Scienze dell'Educazione e nell'aria si respirano la gioia e l'adrenalina della vigila delle grandi prove. Lei dice di non essere pronta. «Ma lo è, io lo so» è sicura Gabriella, la responsabile della struttura, che durante la discussione sarà in prima fila con il pacchetto di Kleenex in tasca assieme a tutti gli operatori dell'istituto.

La tesi è appoggiata sul comodino, immacolata e perfetta, con la copertina rosso fuoco e il titolo inciso sopra in caratteri dorati. I bambini più piccoli hanno il divieto tassativo di toccarla senza il permesso di un educatore. Non lo sanno, ma quella tesi in fondo racconta di tutti loro. Parla di resilienza, cioè della capacità di superare traumi e difficoltà, di piegarsi senza spezzarsi. Che poi è anche la storia di Michela. Aveva 13 anni quando è entrata in comunità: orfana della mamma e con un papà molto problematico, è stata data in adozione ma «ridata indietro» anche dalla famiglia adottiva. Abbandonata due volte, assieme alla sorellina di 5 anni, è cresciuta in comunità con il sostegno degli psicologi e degli educatori. Tanto che ora anche lei vuole diventare un'educatrice e seguire l'esempio di chi la sera l'ha sempre aspettata a casa per consolarla, incoraggiarla, sgridarla, coccolarla, proprio come quando si vuole bene. Ha avuto un letto pulito, una tavola da condividere con altri «fratellini» occasionali, una spalla su cui appoggiarsi. E ce l'ha fatta a diventare adulta e in gamba, a conquistarsi la sua fetta di felicità.

Percorsi di risalita

Lei è solo una dei tantissimi ragazzini che transitano nella struttura di via San Vittore e alloggiano in uno degli appartamenti della comunità fondata da suor Cristina per accogliere i bambini senza genitori o allontanati dalle famiglie per volere del Tribunale dei minori.

Là dove un tempo c'erano le lunghe camerate con i letti a castello, ora ci sono singole case in cui alloggiano al massimo cinque bambini più l'educatore che si occupa di loro. E non ci sono più né i bagni in stile «colonia», né la sala mensa. O meglio, c'è quella della scuola interna all'istituto dove i ragazzi si appoggiano per il pranzo. Ma la sera si mangia in cucina, ricreando un calore e un'intimità che non saranno quelle di una mamma e di un papà ma che sono altrettanto autentiche.

I bambini di ogni età arrivano in comunità indifesi, arrabbiati, con il cuore in frantumi e un bagaglio di traumi che nemmeno un grande potrebbe sopportare. Piano piano cominciano il loro percorso di risalita e abbassano il muro delle loro barriere invisibili. Qualcuno viene adottato, qualcun altro no, soprattutto se è già grandicello o se ha più problemi degli altri.

«Noi cerchiamo di ridare a questi bambini a pezzi un senso di normalità, di casa - spiega Gabriella, responsabile della struttura - Ci prendiamo cura di loro quando nessuno l'ha mai fatto. Controlliamo che la mattina prima di andare a scuola abbiano lo zaino ben preparato e il fazzoletto pulito. Dettagli, è vero, ma sono piccole attenzioni che non hanno mai avuto. Alcuni di loro a 12 anni non hanno mai visto un film al cinema, non hanno mai avuto una festa di compleanno. Noi riempiamo di senso la loro quotidianità e li aiutiamo a gestire il dolore che portano dentro».

Il lieto fine, quando c'è, non arriva mai calato dall'alto, ma viene sempre conquistato con fatica. È il caso di Omar, arrivato al Buon Pastore all'età di 7 anni dopo aver vissuto in una comunità assieme alla mamma, affetta da gravi disturbi psichiatrici. Lui ha sempre cercato di cavarsela da solo, di aiutare la madre, di accudirla. Quando è morta è piombato in una forte depressione, le lanciava palloncini in cielo e le dedicava tutti i suoi disegni, chiuso in una sofferenza ingestibile. «Con molta pazienza gli abbiamo insegnato a sperare - racconta Marta, coordinatrice degli educatori - Ora ha una famiglia adottiva, ha trovato un po' della serenità che si merita un bambino della sua età e frequenta la scuola media». Gli educatori insegnano che riemergere e riscattarsi dal dolore è possibile, così come lo è ritrovare l'infanzia, tornare a fidarsi delle persone e amare.

Qualche caso dimostra anche che sono possibili i ricongiungimenti con la famiglia d'origine. A dimostrarlo è la storia di Cecilia, arrivata a 11 anni in comunità dicendo di aver subito maltrattamenti da parte dei genitori. Loro però erano sempre al lavoro e lei, piccolina, stava assieme a una parente. «Con il tempo e numerose sedute con gli psicologi - spiega Marta - gli educatori si sono accorti che la bambina pensava di ricordare cose che in realtà non erano mai accadute ma le erano state inculcate nella testa dalla parente affetta da disturbi psichici. Un caso di plagio. Il padre non c'entrava nulla. Cecilia a 16 anni è tornata a casa, ora frequenta la quarta superiore e almeno un paio di volte all'anno torna a da noi per un saluto». Ora che è Natale passerà di sicuro, a raccontare ai vecchi amici di come va la scuola, dei suoi amori e della sua adolescenza riconquistata. La vita scorre così negli appartamenti della comunità. Si affrontano dolori pesanti come macigni ma non manca mai il sorriso per iniziare le giornate, per alleggerire i fardelli interiori e per gioire per le cose semplici e belle.

Le regole per crescere

Le regole ci sono e anche quelle aiutano a crescere. «Siamo tassativi su alcune cose - è lapidaria Gabriella - Niente discoteca fino ai 18 anni, Facebook e Instagram ok ma solo se si comunica la password agli educatori. Va bene l'uscita serale per i più grandi ma vogliamo sempre sapere dove sono e con chi sono. E se sgarrano sull'orario di rientro sono guai, come nelle migliori famiglie. Sanno perfettamente che se mi fregano una volta la pagheranno cara». Per il resto la routine scorre tra compiti a casa, canzoni trap scaricate sul telefonino e «imposte» agli operatori («ma come si può ascoltare quella roba»), inviti alle feste di compleanno dei compagni di classe del quartiere (uno dei più eleganti della città), liti e riappacificazioni, confidenze e tavole apparecchiate per cena. I ragazzini adolescenti hanno il cellulare ma sanno perfettamente che l'educatore in ogni momento può controllare le loro chat e i loro profili social.

Grazie alle donazioni che arrivano alla fondazione, si trovano anche i soldi per concedere ai ragazzi momenti di svago e felicità. A Capodanno un gruppetto andrà in viaggio a Roma («già ora non stanno più nella pelle»), qualcun altro ha assistito a uno spettacolo del Cirque du soleil. E in estate, tutti in vacanza per qualche settimana. «Ci teniamo molto a portare i nostri ragazzi in posti belli - spiega Marta - Loro si impegnano tutto l'anno e meritano una vacanza come si deve. Siamo stati ad Amalfi, a Paestum, in Calabria e cerchiamo sempre di andare in buoni alberghi con tutti i comfort, proprio come i loro compagni di scuola».

Aspettando il Natale

In questi giorni in istituto sono tutti al lavoro per preparare il Natale. Negli appartamenti i bambini mostrano il Presepe che hanno appena finito di allestire, rigorosamente con il Bambin Gesù da esporre solo il 25. Ognuno di loro festeggerà con la sua famiglia allargata, qualcuno uscirà a mangiare la pizza assieme ai suoi compagni di appartamento e all'educatore, tutti stanno scrivendo i biglietti di auguri da scambiarsi con gli altri bambini dell'istituto durante la festa del 21 dicembre. E ognuno avrà il suo bel regalo da scartare, con l'agitazione nelle mani e il cuore in gola come ogni bambino dovrebbe provare.

Ma chi cerca in istituto la vera storia di Natale dove i bimbi sono uniti come fratellini e si vogliono bene più che a casa, si sbaglia di grosso. «Sono tutti così famelici del nostro affetto - è realistica Gabriella - che si contendono le attenzioni degli educatori, sono prima rivali che amici. Quando si ha molta fame di qualcosa, difficilmente si è disposti a dividere il proprio panino». Ma tra gelosie e gare per avere un abbraccio in più, i bambini imparano anche a condividere. E sarà pur vero che non tutti riescono a trovare una coppia di genitori adottivi che si occupi di loro ma, se non altro, la vita li ha fatti cadere bene. In un luogo dove si cerca di far quadrare i conti su tutto tranne che sull'affetto, dato in sovrabbondanza. E mentre Gabriella e Marta ci raccontano tutto questo, il loro telefono squilla una decina di volte: c'è da spostare l'appuntamento dal logopedista per Matteo, Sofia esce un'ora prima da scuola e bisogna andare a prenderla, Anita ha il saggio di danza. I messaggini non si contano. «Scusi, ma oggi un gruppetto è andato in gita alla Mattel, mi stanno inviando le foto. Guardi che belli i miei bambini con le parrucche della Sirenetta e i costumi dei supereroi».

Supereroi lo sono davvero, pure senza il mantello del costume.

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