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E la vedova Torregiani maledì Battisti: "La mia vita? Un carcere per colpa sua"

Nel 2007 la moglie del gioielliere al Giornale: "Sono morta con mio marito"

E la vedova Torregiani maledì Battisti: "La mia vita? Un carcere per colpa sua"

Milano Una casa piccola come una stanza, o poco più. Un gatto birichino a dispetto del nome, Bambi. E lei, Elena Torregiani (scomparsa nel 2013), vedova di una tragedia troppo grande per le sue esili spalle. Viveva murata nella penombra di uno striminzito appartamentino popolare del quartiere milanese di Porta Vittoria. Ogni tanto si girava e colloquiava con il suo Pierluigi che la guardava dall'alto di una mensola. «Spero - sussurrò serafica - che Cesare Battisti stia un po' in carcere e che faccia la vita che faccio io dal 16 febbraio 1979». Il giorno maledetto in cui un commando dei Pac, i Proletari armati per il comunismo, le aveva ammazzato il marito e ridotto su una sedia a rotelle il figlio Alberto. «La mia vita se n'è andata - aveva aggiunto - ma quell'uomo almeno sappia cosa vuol dire faticare per portare un pezzo di pane alla bocca».

Era il marzo 2007, quasi dodici anni fa, e Battisti era appena stato fermato, ennesima tappa di una saga interminabile. L'estradizione pareva vicina e lei immaginava quel che avrebbe sussurrato al marito: «Andrò al cimitero di Musocco, come faccio tutte le settimane, e gli dirò: Hai visto Pierluigi che tutto si mette a posto? Sei felice?».

Aveva accennato un sorriso, Elena, più vecchia dei suoi 72 anni, si era messa alla caccia del felino: «Ma dove si è cacciato Bambi?».

Non cercava la vendetta, ma pretendeva la giustizia e per questo, forse per comunicare la propria determinazione, aveva ricevuto il cronista rompendo un lunghissimo isolamento.

«Mio marito - aveva spiegato - era un uomo buonissimo». E nel dirlo aveva sfiorato la sciarpa rossa elegantemente annodata al collo, unica reliquia di quel passato felice. Era stato lui a portarle in casa quei tre ragazzi: Anna, Marisa e Alberto. «Papà e mamma erano morti di malattia e lui aveva pensato di prenderli con noi, di ridare loro la famiglia che avevano perso».

Il destino li aveva resi orfani non una ma due volte. Le mani sciagurate di Battisti e dei suoi complici avevano provocato una tragedia nella tragedia. Il 16 febbraio 1979 il presepe dei Torregiani era andato in pezzi. Troppo dolore. Ruggini e incomprensioni. L'oreficeria alla Bovisa chiusa in un mare di debiti. Elena rimasta sola, in compagnia dei suoi affanni e delle sue angosce. I ragazzi, tutti e tre, avevano preso il largo senza voltarsi indietro. E lei era rimasta a colloquiare con quella foto in bianco e nero che gli sorrideva ogni volta che apriva lo sportello del frigo.

«Io non vedo nessuno e nessuno si fa vedere», bisbigliò prima del congedo. «Vivo con 700 euro al mese, se avessi più soldi, pochi di più, li userei per imbiancare la cucina. Mi spiace riceverla in un locale cosi sporco».

Era fiduciosa, Elena. Invece, ancora una volta il fuggitivo sgusciò fra le maglie della legge. Ma i figli lessero le sue parole e andarono a trovarla. Furono lacrime e abbracci per ore. Di sicuro, anche Pierluigi, sempre appollaiato su quella mensola, fu felice. Prima di riceverla a braccia aperte in cielo, qualche mese dopo. Da lassù, marito e moglie avranno osservato l'epilogo di una storia andata avanti troppo a lungo.

Oltre le biografie dei suoi protagonisti.

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