Cultura e Spettacoli

L'esodo giuliano-dalmata e quegli italiani in fuga che nacquero due volte

Un'inchiesta sulle vittime della violenza titina e su chi fu costretto ad abbandonare la Patria

L'esodo giuliano-dalmata e quegli italiani in fuga che nacquero due volte

L'appartenenza a una comunità nazionale - sostenne il filosofo francese Ernest Renan in una conferenza pronunciata alla Sorbona nel 1882 - non deriva unicamente dalla legge del sangue, ma discende anche da una scelta consapevole che si rinnova con un «plebiscito di tutti i giorni». E nessuno più dei nostri trecentomila compatrioti del confine orientale seppero onorare questo comandamento nel tragico periodo della storia del nostro Paese che va dal 1943 al 1954. Quegli uomini e quelle donne furono, infatti, Italiani che decisero di «nascere Italiani due volte», come scrive Dino Messina in un volume appassionante: Italiani due volte. Dalle foibe all'esodo: una ferita aperta della nostra storia (Solferino, pagg. 304, euro 16,50), e che riaffermarono la loro identità, in nome di una scelta etnica che fu soprattutto una scelta culturale. Da cittadini divenuti profughi, affrontarono l'odissea di un esilio senza ritorno che li portò a lasciare Istria, Fiume, Zara, Pola per una patria che si rivelò troppo spesso matrigna o per terre lontane: Australia, Canada, Argentina, Sudafrica, Rhodesia.

Il saggio di Messina, commosso e partecipe perché si basa sulle testimonianze dei pochi sopravvissuti e dei tanti che hanno mutuato il ricordo dell'esodo dalla memoria familiare, ha l'andamento di una tragedia greca che si dipana in tre atti. Il primo iniziò, dopo il settembre 1943, quando Hitler costituì la Zona d'operazioni del Litorale Adriatico, una suddivisione territoriale comprendente la Venezia Giulia e le province di Trieste, Pola, Fiume, sottoposta alla diretta amministrazione militare del Reich, dove le forze d'occupazione cercarono, con largo successo, di esasperare l'ostilità dell'elemento slavo contro quello italiano. Poi venne, dall'autunno 1944 alla primavera del 1945, il «democidio» sapientemente pianificato - e scatenato contro la nostra gente - dal IX Korpus Sloveno di Tito. Il terzo atto si compì dal 10 febbraio 1947 con la firma del trattato di Parigi (con cui furono cedute a Belgrado Fiume, Pola, le isole del Quarnaro, la quasi totalità dell'Istria e gli altopiani carsici limitrofi a Gorizia), all'ottobre 1954, con il Memorandum di Londra che restituì Trieste all'Italia, concedendo, però, alla Iugoslavia un'ulteriore porzione dell'Istria e tracciando una linea di confine che fu definitivamente riconosciuta col Trattato di Osimo del novembre 1975.

Di tanto disastro si volle allora rendere responsabile De Gasperi, accusato di essersi presentato al tavolo delle trattative «col capo cosparso di cenere e il rosario in mano». Era un'accusa totalmente ingiustificata. Nell'agosto del 1946, l'esponente democristiano, infatti, aveva pronunciato dinanzi ai rappresentanti delle Potenze alleate un discorso in cui respingeva il carattere punitivo del trattato di pace, affermando che i vincitori, non solo volevano compiere una spartizione del nostro territorio, in spregio alla «Carta atlantica» che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali. Essi, infatti, intendevano stabilire che «gli Italiani, passati sotto sovranità slava, i quali opteranno per conservare la loro cittadinanza, dovranno entro un anno essere espulsi e trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, la loro casa, i loro averi».

Contro quello, che fu poi definito il diktat di Parigi, si mobilitò un fronte esteso di politici e intellettuali. Luigi Sturzo propose che non fossero inviati plenipotenziari per firma del trattato di pace, in segno di protesta. Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, il fiumano Leo Valiani rifiutarono sdegnosamente di votare alla Costituente la ratifica degli accordi siglati nella capitale francese. Lo storico Federico Chabod, partigiano in Val d'Aosta, che aveva sventato in quella regione un progetto annessionistico fomentato dalla Francia, alla fine del luglio 1945, suggerì al governo De Gasperi di utilizzare lo strumento dell'autonomia regionale per preservare l'italianità del confine orientale. Infine, il filosofo Carlo Antoni e un altro storico Ernesto Sestan (l'uno triestino, l'altro istriano) redassero, sempre per De Gasperi, due memoriali in cui si esponevano le ragioni etniche, storiche, culturali che militavano a favore della conservazione all'Italia di Trieste e di parte del goriziano e dell'Istria e dove si suggeriva di regolare il contenzioso territoriale in base al principio dell'autodeterminazione, per cui Slavi e Italiani avrebbero dovuto scegliere la loro nazionalità attraverso liberi referendum. Questa proposta divenne il cavallo di battaglia di Gaetano Salvemini, che già dal 1944 aveva denunciato la politica espansionistica di Tito e il coinvolgimento di Togliatti a suo sostegno. Nel febbraio 1945, in replica a un articolo comparso sull'Unità, smaccatamente favorevole all'annessione iugoslava di Gorizia, Trieste e dell'Istria occidentale, Salvemini accusava gli «stalinisti italiani» di voler «buttare a mare» i propri compatrioti, e di costringere gli italiani, che da sempre erano maggioranza in alcune zone miste italo-slave, ad «andarsene a casa del diavolo».

Era una fin troppo facile profezia. Di lì a due anni, dai porti dell'Istria e della Dalmazia sarebbero partite navi carica di un'umanità dolente, verso una patria che si sarebbe dimostrata ingiusta e impietosa, oltre ogni misura. A essi il Pci, i suoi dirigenti, le sue organizzazioni, i suoi sindacati, i suoi militanti riservarono la qualifica di «fascisti», a causa della «vergognosa fuga dal paradiso dell'eguaglianza e della fraternità socialista».

E quei «due volte Italiani» iniziarono a subire, allora, l'oltraggio del più crudele genocidio: quello della memoria.

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