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Condannato il re dei narcotrafficanti. Adesso "El Chapo" rischia l'ergastolo

Il verdetto della giuria raggiunto dopo 5 giorni di discussioni

Condannato il re dei narcotrafficanti. Adesso "El Chapo" rischia l'ergastolo

Paolo Manzo

San Paolo Colpevole. La giuria made in Usa non ha avuto dubbi: il 61enne Joaquín El Chapo Guzmán merita l'ergastolo. Dopo due fughe in carcere in Messico - l'ultima rocambolesca nel 2015 attraverso un tunnel scavato sotto la sua cella - e l'estradizione negli Stati Uniti nel gennaio del 2017, la parabola del grande boss del cartello di Sinaloa è giunta ormai al capolinea.

I 12 giurati, rigorosamente protetti dall'anonimato, riuniti per una settimana per decidere il verdetto di quello che a tutti gli effetti è stato definito «il processo del secolo», hanno ritenuto che le prove presentate durante i due mesi e mezzo fossero schiaccianti. E così El Chapo si trova ora condannato con 10 capi di imputazione: per associazione criminale, cospirazione internazionale per produzione e distribuzione di cocaina, eroina, metanfetamine e marijuana, uso di armi e riciclaggio dei proventi del narcotraffico. Duro il commento dei suoi legali: «Siamo molto delusi dal verdetto, ma rispettiamo il processo e la decisione dei giurati». Per poi ricordare che «abbiamo dovuto affrontare ostacoli senza precedenti. C'erano molti testimoni che hanno denunciato la corruzione ma non ci è stato permesso di mostrare con libertà tutti gli elementi». In totale la corte ha ascoltato 200 ore di dichiarazioni e intercettazioni telefoniche e 56 testimoni. Tra questi 14 collaboratori di giustizia, per lo più narcotrafficanti e suoi soci nel cartello di Sinaloa. Come il suo tecnico informatico specializzato, Christian Rodriguez che oltre a testimoniare contro di lui ha permesso alle autorità statunitensi di accedere ai messaggi e alle conversazioni del cellulare del boss. Molti di loro lo hanno, poi, accusato di torture indescrivibili e omicidi efferati. Ma hanno anche messo in risalto il profondo livello di corruzione di quasi tutte le principali istituzioni messicane. Il narcotrafficante Alex Cifuentes in aula ha dichiarato che El Chapo avrebbe pagato l'equivalente di 100 milioni di dollari in tangenti all'ex presidente del Messico Enrique Peña Nieto. E danaro sarebbe finito anche nelle tasche del suo predecessore Felipe Calderón. Nonostante le smentite di rito, da questo processo è emerso un ritratto spietato della realtà del narcotraffico messicano. Con dettagli degni di una telenovela: El Chapo che si nascondeva sulle montagne, che sognava di girare un film sulla sua vita, che brindava agli affari per droga conclusi ovunque, da Panama al Canada e anche per l'acquisto di un ordigno bellico da un officiale dell'esercito dell'Ecuador.

Quanto al diretto interessato, per tutto il processo si è rifiutato di testimoniare. Ci pensano adesso i suoi avvocati a parlare per lui. Nell'ultima arringa il suo legale Jeffrey Litchman ha dichiarato in modo perentorio che El Chapo non è mai stato il grande capo del Cartello di Sinaloa ma solo il braccio destro del suo socio El Mayo Zambada. I documenti processuali però raccontano un'altra storia.

Il «bassetto» (questo il significato del suo soprannome), di origini umilissime, già a 15 anni coltivava e vendeva marijuana per conto del boss Miguel Angel Félix Gallardo del cartello di Guadalajara fino a fondare il cartello di Sinaloa che lo fa diventare il grande boss della cocaina mondiale, capace di trafficare oltre 200 tonnellate di cocaina e guadagnare 14 miliardi di dollari.

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