Cronache

Diventare suora per riempire la politica vuota

L a notizia parla di una donna, giovane assessore ai Servizi sociali, laureata in ingegneria, che, dopo anni dedicati attivamente al servizio dei più disagiati, lascia la carica e la carriera politica per farsi suora (...)

(...) di clausura. È accaduto in un comune della Sardegna, lei si chiama Simona e il suo colore politico non ha alcuna importanza. Nessuno ha il diritto di entrare nel cuore di Simona, di farsi interprete del dramma che l'ha condotta a questa luce oggi così inconsueta. Tuttavia, possiamo però tentare di immedesimarci, di far nostra la sua storia. Chiederci, se fosse accaduto a noi, cosa ci sarebbe passato nel cervello, nel cuore.

Mi tornano in mente le parole inaspettate che ho udito mesi fa dalla bocca di un prete famoso, con il quale di solito non mi trovo d'accordo, di quelli che parlano più di politiche sociali e di «reti» che di Gesù Cristo. Il nostro mondo, ha detto, gli ricordava, ma al rovescio, l'età del Monachesimo: a quel tempo l'Europa si riempì di monasteri e ogni monastero aveva la sua piccola foresteria, dove venivano alloggiati gli eventuali ospiti; oggi, ha concluso, tutto il mondo si è trasformato in un'immensa foresteria, ma mancano i monasteri. Per anni, è stato il suo commento, ho creduto che per vincere l'ingiustizia occorresse soprattutto fare, mentre oggi capisco meglio che la cosa più necessaria, la prima cosa da fare è pregare.

Ora, al di là di ogni altra considerazione, in queste parole si condensa una débâcle della politica come tale. Non intendo tanto il fatto che la politica sia insufficiente a rispondere ai bisogni umani: quando mai la politica ha risposto a tutte le domande? Non è il suo mestiere, chi ci ha provato si chiama Hitler, Stalin, Pol Pot. La débâcle è un'altra. Premesso che nemmeno andando in monastero si risolvono i problemi del mondo, e che i peccati si possono sempre fare, fuori e dentro il monastero, c'è una differenza che salta all'occhio: che un monastero è comunque una casa, un posto dove stare e dove si fa qualcosa di reale: si prega. Mentre la politica non lo è più.

Lo è stata, altroché. Se penso a uomini appartenenti a forze politiche diverse, da Amendola ad Almirante passando per Moro, La Pira, De Gasperi e tanti altri, la politica mi appare come una casa alla quale un uomo, nella consapevolezza dei limiti propri e della propria azione, può dedicare degnamente la vita per servire il bene comune usando l'arte difficile della mediazione e del compromesso. La stessa parola «compromesso» appare oggi quasi una parolaccia, mentre i compromessi ci sarebbero molto utili per uscire almeno da alcuni dei pantani in cui ci troviamo. Invece preferiamo dire che non c'è nessun pantano.

Senza un luogo dove stare, senza un ubi consistam è molto difficile fare qualcosa di veramente utile per il prossimo. Capisco perciò che una persona abbia ritenuto di essere più utile al mondo chiudendosi in un monastero a pregare che non lottare tra bugie e cinismo in un mondo che non è più una casa, tra gente che perlopiù non crede a niente ed è perciò capace di tutto. Facciamo a Simona i migliori auguri. Ma che la politica (la politica, non i proclami, gli slogan, le frasi fatte) non sia più una casa, questa è una tragedia. E la colpa non è di chi sta a Roma, è di tutti: non siamo capaci di dare al Paese una continuità che possa farlo crescere come meritano le sue immense risorse.

Luca Doninelli

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