Controcultura

Non ditelo ai comunisti ma in politica Balzac era sovranista

L'autore della «Commedia umana» mise sempre al primo posto l'interesse nazionale

Non ditelo ai comunisti ma in politica Balzac era sovranista

Ricorre quest'anno il 220º anniversario della nascita di Honoré de Balzac (1799-1850) e il 190º anniversario del suo primo grande romanzo storico, Les Chouans.

Autore di un'opera gigantesca che, con qualche immodestia, volle chiamare Comédie humaine - un grande ciclo di affreschi che raccontavano la storia passata e ancor più quella recente della Francia - sentendosi, non senza qualche ragione, il Dante dell'età moderna, Balzac, legittimista e conservatore sui generis, nella cultura contemporanea viene spesso ricordato per gli elogi che gli riservarono i fondatori del materialismo storico - Karl Marx e Friedrich Engels - e i loro epigoni novecenteschi - da Antonio Gramsci a György Lukacs. Nella lettera a Margaret Harkness del 1888, Engels scrive di aver imparato più da Balzac «sull'ascesa sociale e politica della borghesia che da tutti gli storici professionisti, gli economisti e gli statisti del periodo, messi insieme». «Che politicamente e socialmente egli sia un reazionario - rileva Gramsci -, appare solo dalla parte extra-artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.)».

A mio avviso si tratta di una lettura riduttiva. Balzac vede, sì, lucidamente le contraddizioni della borghesia, sul piano culturale, sociale, giuridico ed economico, ma non le vede anche il principe del liberalismo ottocentesco, Alexis de Tocqueville, che considera il regno di Luigi Filippo d'Orléans (1830-1848) una sorta di «compagnia industriale, in cui tutte le operazioni si fanno in vista del beneficio che i soci ne possono ritrarre»?

Il giudizio di Balzac sulla borghesia è tagliente e impietoso. È una classe sociale, si legge nel Gabinetto delle antichità (1837), «che offusca con le sue piccole passioni i grandi interessi del paese, incostante nella politica, oggi per il potere e domani contro, che compromette tutto e non salva nulla, che si dispera per il male che ha fatto e che continua a generarlo, non volendo riconoscere la propria meschinità e infastidendo il potere nel momento stesso in cui si dichiara al suo servizio, a un tempo umile e arrogante, pretendendo dal popolo una subordinazione che essa non concede da parte sua alla monarchia, inquieta per la superiorità altrui che vorrebbe portare al proprio livello, come se la grandezza potesse essere piccola, come se il potere potesse esistere senza la forza».

Sennonché il riduzionismo sociologico nella lettura dei grandi romanzi di Balzac - da Eugenia Grandet a Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau - e la sottovalutazione gramsciana delle sue divagazioni e prefazioni ci impediscono di cogliere un aspetto cruciale della sua riflessione storica e artistica. Mi riferisco a quel terrore dello sradicamento, della perdita di identità della Francia storica che viene da lontano e che non è solo il prodotto di quella borghesia che «ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro (...) ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine (...) ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo» e, in tal modo, «ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate» (Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, 1848).

Il pensiero fisso di Balzac, piaccia o non piaccia, è «l'unità e la potenza della nazione» ed esso spiega le apparenti oscillazioni delle sue simpatie politiche, la giovanile ammirazione per Robespierre e il repubblicanesimo, il culto costante della memoria di Napoleone nonché la conversione al legittimismo dell'età matura. Gli attori che, sul grande palcoscenico della storia, non sono stati all'altezza del loro compito, che si sono rivelati impari alla grande politica, che non hanno saputo «impiegare abilmente le passioni degli uomini o delle donne come molle che si fanno muovere a vantaggio dello stato, mettere i meccanismi al loro posto nella grande macchina che chiamiamo governo, e compiacersi a racchiudervi i più indomabili sentimenti come detenuti che ci si diverte a sorvegliare», che non hanno compreso che governare gli uomini «è creare, e, come Dio, mettersi al centro dell'universo» (Les Chouans), sono investiti dal suo disprezzo, si tratti degli aristocratici d'ancien régime, degli uomini del Direttorio o dei fautori di un'impossibile Restaurazione. D'altra parte, non a caso si richiama a Hobbes e a Spinoza come ai pensatori classici che, più degli altri, hanno messo in guardia dalle forze del caos e del disordine sociale e, soprattutto, tesse l'elogio di Caterina de' Medici (1841). La Reggente al trono di Francia, alla quale viene imputata (a torto) la strage degli ugonotti nella Notte di S. Bartolomeo (1572) comprese a cosa avrebbero portato il libero arbitrio, la libertà politica (da non confondersi con la libertà civile) alla Francia del 1840, «un paese esclusivamente dedito agli interessi materiali, senza patriottismo, senza coscienza in cui il potere è senza forza, l'elezione, frutto del libero arbitrio e della libertà politica, innalza solo i mediocri e in cui la forza bruta è divenuta necessaria contro le violenze popolari e la discussione, estesa alle cose futili, stronca ogni azione del corpo politico: in cui il denaro domina tutte le questioni e in cui l'individualismo, prodotto orribile della divisione all'infinito delle eredità che sopprime la famiglia, divorerà tutto, anche la nazione, che l'egoismo abbandonerà un giorno allo straniero».

Di qui la necessità del risveglio delle energie nazionali, l'abbandono di ogni rimpianto improduttivo per il passato, l'auspicio dell'«uomo forte» e la coscienza (così estranea ai profeti del passato come i suoi maestri de Bonald e de Maistre) che il sottosviluppo economico non renderà mai forte uno stato - vedi l'utopia saint-simoniana del Medico di campagna. Ma la rinascita della comunità esige (in ciò Balzac è un autentico liberale e non certo un precursore del modernismo della destra radicale) il riconoscimento del valore del pluralismo, nel rispetto profondo di quelle che Maurice Barrès chiamerà «le diverse famiglie spirituali della Francia».

Nella «Prefazione» del 1841 a Una tenebrosa vicenda, scrive che «la difesa di un paese è un principio tanto sacro quanto la difesa della regalità» e che quanti avevano seguito Luigi XVIII in esilio erano «altrettanto rispettabili» quanto quelli che avevano difeso la Repubblica contro l'intera Europa.

Commenti