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Il devoto T. F. Powys vede ovunque il buon Dio. E gli rimette i suoi debiti

I romanzi e i racconti dell'autore inglese hanno per protagonista il Signore. Nel bene e nel male

Il devoto T. F. Powys vede ovunque il buon Dio. E gli rimette i suoi debiti

Theodore Francis Powys (1875-1953) era un uomo timorato di Dio. Figlio di un reverendo, per lui il «timor di Dio» nel senso di rispetto filiale verso l'Altissimo, come insegnano le Scritture («Temere il Signore è odiare il male: io detesto la superbia, l'arroganza, la cattiva condotta e la bocca perversa», Proverbi, 8,13), era pane quotidiano. Ma il suo timore di Dio era anche di natura molto laica e pratica: ne aveva, diciamolo pure, una paura fottuta. Conoscendo la potenza e l'intransigenza di Dio, e sommandole ai comportamenti sciagurati degli uomini, il buon T.F. si aspettava da un momento all'altro la catastrofe, la resa dei conti.

Così quando, intorno ai trent'anni, all'inizio del Novecento, dopo le nozze con Violet Dodd mise fra parentesi la sua attività di fattore per darsi alla letteratura, il Nostro iniziò un confronto serrato proprio con Dio, il più difficile degli interlocutori, l'unico che alla fine della fiera ha sempre ragione, e se non ce l'ha se la prende con la forza. Nei racconti e nei romanzi di Powys, Dio è l'unico vero protagonista, un mattatore che, come il diavolo, viene preso per le corna. «Quando un uomo legge la Bibbia e vive in campagna - anche se nel suo cuore è rimasto qualche appetito naturale - durante la maggior parte delle sue giornate il tenebroso uccello del dolore chiude le ali e dorme profondamente. Ma quell'altra creatura alata, il Tempo, continuerà - qualunque cosa l'uomo faccia - a tenersi in moto, senza che nessuna tempesta o uragano possa fermarlo, e prima che l'uomo si accorga del suo trascorrere, gli anni saranno passati», scrive Powys nel racconto Quando eri ignuda. Insomma, non si scappa, anche Dio, se vuole giudicare l'operato degli uomini, deve farlo sul loro terreno, che è dentro il Tempo. Dunque il Dio di Powys si fa uomo. Ma non, questa volta, tramite suo Figlio (in tal senso ha già dato, con fin troppa generosità), bensì sotto le non mentite spoglie, per esempio, di un rozzo calderaio.

In L'unico penitente, Jar è il potenziale cliente del reverendo Hayhoe che s'è messo in testa di introdurre nella sua comunità il sacramento della confessione (scatenando una specie di guerra civile fra parrocchie). E, interpellato dal religioso, Jar dice: «Ho crocifisso mio figlio. Sono stato io a creare ogni terrore sulla terra, la tortura, la pestilenza, tutta la disperazione, tutto il tormento. Io sono quello che squarcia la donna incinta, ogni immondo stupro è un mio atto, tutto il dolore, e tutto il male furono creati da me. Puoi amarmi, adesso?». Il mondo di Powys è un territorio a metà strada fra Peyton Place e un vangelo apocrifo, popolato da curati micragnosi, contadini infoiati, maliziose zoccolette, vedove allegre e scemi del villaggio in odore di santità. Tutti sotto il britannico cielo perennemente imbronciato al di là del quale Egli, come in un infallibile Panopticon, vede e giudica. Soltanto le menti più illuminate acquistano contezza della situazione, come l'acuto reverendo Gasser in Lo stagno di rugiada. Dice, durante un sermone: «Ritengo molto probabile che Dio, dopo averci perdonato tante volte, non possa più, per giustizia verso se stesso e il proprio amato Figlio, tornare a perdonarci. E se non ci può perdonare, può soltanto portarci all'estrema distruzione. E quando saremo distrutti, per noi non ci sarà più nessun Dio; i nostri peccati lo avranno distrutto».

Il ragionamento odorerà anche di eresia, uscendo dalla bocca di un ministro di culto, ma non fa una grinza. E per assaporare il gusto rancido dell'abiezione umana descritta da Powys possiamo rivolgerci a Gli dèi di Mr. Tasker (Adelphi, 1977), dove gli dèi sono maiali molto aggressivi e Mr. Tasker è un mostruoso cascinaio che li adora e farebbe di tutto per loro, compreso ammazzare suo padre come un cane randagio. Oppure, passando dai registri del noir e dello splatter a quello della commedia, a Il buon vino del signor Weston (Adelphi, 2017). Dove il signor Weston è un rivenditore di vino molto speciale. Il 20 novembre 1923 giunge nel villaggio di Folly Down a bordo di un furgone, in compagnia di un giovane aiutante. Primo effetto della sua venuta: il tempo si ferma. Secondo effetto della sua venuta: Powys, in questa sospensione temporale che cristallizza le esistenze dei paesani, usa il signor Weston come cartina di tornasole per misurare il loro livello di umanità. Weston, ovviamente, è Dio, il suo vino è la Bibbia (quindi è anche uno scrittore e a un certo punto confessa che se avesse potuto rivedere le bozze, certe pagine le avrebbe volentieri modificate...), il suo aiutante è un angelo.

E ora in La gamba sinistra (Adelphi, pagg. 117, euro 12, traduzione di Adriana Motti, da domani nelle librerie) torna, dopo l'edizione del Melangolo del '95, la ruspante incarnazione del Signore già citata, Jar, il «cencioso calderaio ambulante che per campare martellava pentole e casseruole vecchie, e non era un bel niente per nessuno». Jar è morto da tempo, ma quando nel villaggio di Madder di Dio (si chiama proprio così) il cattivo del luogo, il fattore Mew, si allarga troppo, prima violentando la figlia del buono, James Gillet, poi mettendo le mani su case e terreni altrui, Jar, come un supereroe vendicatore si rifà vivo, e sistema le cose in modo piuttosto sbrigativo.

Perché se le pagine di Theodore Francis Powys emanano un sottile afrore di incenso evangelico, il Dio che le governa è quello del Vecchio Testamento: poche parole e tanti fatti.

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