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Accordi con editori e più controlli anti fake news

I giganti del web dovranno distribuire ricavi ed essere più responsabili sui contenuti pubblicati

Accordi con editori e più controlli anti fake news

Manuela Gatti

Internet è morto, lunga vita a Internet. La riforma europea del copyright è stata infine approvata e i due schieramenti, pro e contro il testo, non potrebbero essere più polarizzati. La corsa a convincere i naviganti che la direttiva fosse del tutto negativa, o del tutto positiva, ha generato parecchia confusione sui contenuti. E ha contribuito a far circolare diverse falsità, dalla morte di Wikipedia alla censura dei meme. Ma cosa cambia effettivamente con la riforma?

Dopo un ultimo passaggio in Consiglio - considerato puramente formale - il testo entrerà in vigore portando a termine un iter legislativo di tre anni. Si tratta di una direttiva, che quindi fissa gli obiettivi ma non i modi con cui raggiungerli: saranno gli Stati membri a doverla recepire e trasporre in legge attraverso provvedimenti nazionali. Dovranno farlo entro due anni: le norme, dunque, avranno piena efficacia legale entro la metà del 2021. Pena l'avvio di una procedura di infrazione e il ricorso alla Corte di giustizia Ue. Da quel momento molto è destinato a cambiare per le piattaforme online, per gli editori e in generale per chiunque detenga il copyright su materiali che finiscono online. A essere coinvolte sono però solo le piattaforme - in gergo service provider - «la cui attività principale è quella di permettere agli utenti di caricare e condividere grandi quantità di materiale coperto da diritto d'autore con l'obiettivo di trarne profitti». Dicasi Google, Facebook e YouTube, in primis. Mentre Wikipedia - che è una no profit - e tutte le altre piattaforme open source, con scopi educativi o di semplice archiviazione di contenuti non saranno toccate in alcun modo.

L'articolo 11 è, insieme al 13, uno dei due nodi più discussi. È quello che riguarda l'informazione, intesa come testate giornalistiche e agenzie di stampa (esclusi i blog e le pubblicazioni scientifiche e accademiche). In base all'articolo 11 le piattaforme saranno tenute a sottoscrivere accordi con gli editori (europei) di cui pubblicano online gli articoli, in modo da dare un compenso adeguato a chi ha prodotto quei contenuti. I provider, in pratica, pagheranno per poter pubblicare gli snippet, cioè le anteprime degli articoli con titolo, sommario e foto che troviamo su Google News o sulle bacheche di Facebook. A pagare saranno solo le piattaforme, non i singoli. Sarà quindi una «link tax», come è stata definita dai critici? No. Ognuno potrà rimandare ad altri articoli attraverso gli hyperlink come in passato. Potranno essere citati senza costi per la piattaforma anche estratti molto brevi dei pezzi giornalistici. In generale per gli utenti non cambierà nulla: sarà il social network o l'aggregatore di notizie (come nel caso di Google) a dover stipulare accordi con gli editori per potersi collegare a loro e sfruttare i loro contenuti.

L'altro articolo finito ancor di più nel mirino degli oppositori della direttiva è il 13. Quello, cioè, che rende le piattaforme responsabili delle violazioni del diritto d'autore causate dai contenuti caricati dagli utenti (che non si applica, però, a citazioni, recensioni e parodie - vedi meme). Ai provider, di fatto, viene chiesto un controllo a priori e uno a posteriori. A priori, dovranno attrezzarsi in modo da ricevere un'autorizzazione (retribuita) per usare materiali coperti da copyright. Nel caso di un video contenente una specifica canzone, per esempio, la piattaforma dovrà accordarsi con la Siae di turno per i diritti d'autore. A posteriori, queste dovranno filtrare i contenuti già pubblicati in cerca di eventuali violazioni e rispondere «tempestivamente» alle segnalazioni. In questi casi la decisione di rimuovere il contenuto illegale deve essere affidata a umani, e non ad algoritmi. C'è da dire, però, che la direttiva specifica che i provider devono almeno dimostrare di aver fatto del loro meglio nel rispettarla. E che alle piattaforme più giovani - attive da meno di tre anni, con un fatturato inferiore a 10 milioni di euro e meno di 5 milioni di visitatori unici al mese - è richiesto solo di intervenire ex post sulla base di reclami.

Gli obiettivi, dunque, sono stabiliti. Resta da capire come arrivarci.

La palla ora passa ai singoli Paesi Ue: hanno 24 mesi per prepararsi.

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