Cultura e Spettacoli

La minaccia alla libertà? Viene dalla sinistra

Nelle democrazie mette in crisi il sistema chi demonizza le opinioni degli altri

La minaccia alla libertà? Viene dalla sinistra

Il nemico mortale della democrazia liberale è la mente totalitaria ma la mente totalitaria non è solo quella che nutre la political culture dei regimi liberticidi e concentrazionari: ormai è diffusa dovunque, anche nei paesi di più antica democrazia. A volerla definire, al di là della facile retorica, essa è la rimozione del lato positivo dei fenomeni: quando ci imbattiamo in persone che non ci piacciono, quando ci confrontiamo con posizioni ideali, con comportamenti pratici che non condividiamo, con simboli storici e religiosi (in senso lato) lontani dalla nostra sensibilità etica, scatta la sindrome totalitaria ovvero la rimozione delle luci, ovvero dei valori, che ispirano i nostri avversari/nemici. Nel dibattito politico e culturale del nostro paese, ormai, le tossine totalitarie stanno avvelenando ogni questione. C'è purtroppo un'aria di regime che usa il politicamente corretto fatto di richiami alla Costituzione e allo spirito antifascista che la definisce- come una scimitarra per negare i problemi reali sentiti da un a parte più o meno ampia dei nostri connazionali. Forse questo malcostume della mente è diffuso a destra e a sinistra ma indubbiamente è a sinistra, in virtù dell'egemonia culturale che essa è riuscita a imporre all'Italia del Dopoguerra (un'egemonia che non ha avuto adeguate proiezioni politiche e sociali, alla luce degli atavismidel nostro popolo), che esso si manifesta in tutta la sua potenza corrosiva.

Si prenda un problema che fa di nuovo discutere in questi giorni, lo ius soli. Il conferimento della cittadinanza a chi è nato nel nostro Paese è considerato un diritto sacro e indiscutibile dalle sinistre unite, cattolica, postcomunista, postazionista. E lo si può capire giacché le sinistre per ragioni storiche oggettive e non per un loro deficit di intelligenza e di moralità si riconoscono sempre di più in una filosofia politica universalistica che, congiungendo illuminismo e cattolicesimo, due posizioni dello spirito segnate dall'anticomunitarismo cioè dalla diffidenza nei confronti delle appartenenze, delle radici e delle tradizioni, non riescono a concepire altri patriottismi che quello costituzionale, alla Jürgen Habermas: esistono solo gli individui, i loro bisogni, i loro diritti e questi vanno riconosciuti a tutti, al di là delle etnie culturali, delle religioni, delle frontiere (che un filosofo del diritto estremista come Luigi Ferrajoli vorrebbe abbattere una volta per sempre). Si tratta di una visione del mondo assolutamente degna di rispetto anche se segna una frattura tra le sinistre della seconda metà del Novecento e una parte consistente delle sinistre dell'Italia prefascista, che, con i socialisti riformisti, con i democratici liberali, con gli anarco-sindacalisti assumevano talora atteggiamenti che oggi verrebbero etichettati come nazionalisti.

Il morbo totalitario non consiste, nella fattispecie, nel sostenere idee e programmi che aprono all'accoglienza e allargano i benefici della citizenship ai più diversi figli della Terra. Esso si manifesta, invece, nella demonizzazione di chi ha altre preoccupazioni, ha altri valori, ha altri timori. In sostanza, ci sono italiani per i quali lo Stato nazionale non è più il fondamento della legittimità politica e altri per i quali costituisce un riferimento ideale imprescindibile e fondamentale. Per i secondi, una comunità politica non è soltanto uno spazio in cui vengono tutelati i diritti universali dell'uomo e del cittadino o in cui si svolgono le transazioni commerciali, si producono beni materiali, che apportano più benessere agli individui e alle famiglie, si organizza una passabile convivenza civile (che altri universalisti, diversi dai quelli su citati, come i pasdaran del mercatismo vorrebbero affrancata dal nostro nemico, lo Stato) ma è una comunità di destino una Schicksalsgemeinschaft- in cui si tramandano memorie, si venerano padri fondatori, si coltiva il mito di fondazione, si difende una lingua, si perpetua il ricordo delle grandi realizzazioni artistiche, letterarie scientifiche di una Nazione, si pratica una solidarietà sociale in soccorso dei fratelli meno fortunati che i cicli economici o i progressi tecnologici buttano sul lastrico. Tutte cose che possono entrare in conflitto con la logica dell'economia e dei diritti. Un esempio chiarificatore. Se in un Paese la maggioranza dei cittadini elettori porta al governo un partito che decida di eliminare il liceo classico, un simbolo per eccellenza di italianità, giacché il tipo di sapere che vi si impartisce è quello dei gentiluomini di campagna, come già si diceva una volta, ma non quello richiesto da una società tecnologica avanzata, perché non dovrebbe essere consentita una misura del genere? Proprio perché la democrazia è una cosa seria e per molti di noi, a cominciare dallo scrivente- è ancora più importante dell'appartenenza nazionale, il modo per conciliare democrazia e nazione è quello di regolare col bilancino la concessione dei diritti politici, ovvero di concederli a quanti sono interessati oggettivamente -per nascita, lunga permanenza in un luogo, ruolo sociale svolto- alla conservazione del patrimonio culturale trasmessoci dal passato. Agli altri che vivono, lavorano, pagano le tasse in Italia dovrebbero essere concessi tutti i diritti sociali (scuola, assistenza, casa, ospedali) ma non il potere politico mi si consenta un altro caso estremo di abolire, a tutti i livelli di istruzione, le lezioni in italiano e di sostituirle con le lezioni in inglese, giacché, nel mondo della globalizzazione, ci si fa più strada se si parla la lingua della, un tempo, perfida Albione.

In America sta già succedendo: la fine del predominio anglosassone sta comportando la fine della civiltà anglosassone. Nelle zone a predominanza ispano-americana ci si chiede, da tempo, perché studiare Shakespeare o la storia europea che esalta i conquistatori etnocidi come Cristoforo Colombo.

Forse è un trend inevitabile e dovremo rassegnarci al fatto che Santa Croce o i cipressi di Bolgheri, in un futuro non lontano, non abbiano più alcuna risonanza emotiva nell'animo degli abitatori della penisola: nel mondo tutto cambia «e involve / Tutte cose l'obblio nella sua notte;/E una forza operosa le affatica/ Di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe/E l'estreme sembianze e le reliquie/ Della terra e del ciel traveste il tempo». Non si giustifica, però, la demonizzazione di chi a tutto questo non si rassegna -confortato per altro da seguiti elettorali non esigui- e si preoccupa degli sconvolgimenti dei paesaggi naturali e artificiali che hanno contribuito in passato a definire la sua identità e quella delle persone a lui care. Gli Italiani sono accusati di essere relativisti: magari lo fossero sul serio, nel senso di Michel de Montaigne o di David Hume! Se lo fossero sul serio, infatti, prenderebbero coscienza che ciascuno ha i suoi valori e a tutti è dovuto il massimo rispetto e saprebbero pure che il dramma dell'esistenza, come scrisse un grande filosofo, non è il fatto che, in ogni grande questione pubblica, si affrontano il Bene e il Male, la Ragione e il Torto ma si affrontano sempre due beni e due ragioni.

Intervento scritto in occasione della giornata in ricordo dello storico e diplomatico Fabio Grassi Orsini che si terrà domani a Roma alla Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini (dalle 15 e 30) e intitolata «Lo stato delle democrazie liberali».

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