Cronaca locale

Prima "Manon Lescaut", la Scala fa riscoprire il Puccini delle origini

In scena la versione numero uno dell'opera Chailly: "Un titolo che manca da 24 anni"

Prima "Manon Lescaut", la Scala fa riscoprire il Puccini delle origini

Il 31 marzo debutta alla Scala la prima versione di «Manon Lescaut» di Giacomo Puccini: opera che il compositore rielaborò per 30 anni firmando ben otto edizioni. A Milano vedremo la n.1, la «Ur-Manon» tenuta a battesimo a Torino nel 1893. A riportarla in vita è il direttore musicale del teatro milanese, Riccardo Chailly, pucciniano votato, che collabora con David Pountney per la regia, Leslie Travers per le scene e Marie-Jeanne Lecca per i costumi. Nel ruolo del titolo, Maria José Siri (protagonista tra l'altro - nella «Madama Butterly» che aprì la stagione del 2016-17) , Marcelo Álvarez sarà Des Grieux, Carlo Lepore Geronte e Massimo Cavalletti veste i panni di Lescaut.

Chailly continua così il percorso pucciniano avviato nel maggio di Expo 2015 quando presentò «Turandot» con finale di Berio. Seguivano «Fanciulla del West» nell'orchestrazione originale, «Madama Butterly» nella prima versione mentre il prossimo 7 dicembre è la volta di «Tosca» con Anna Netrebko nel ruolo del titolo. Poi? «Dovrei continuare il percorso Puccini. Lo spero. Ma qui la vita prosegue step by step» osserva Chailly con una punta di ironia. Il management della Scala, come ognuno sa, è in stallo. Si profilano scenari gattopardeschi. Il Cda scade nel febbraio 2020, e così pure la sovrintendenza di Alexander Pereira che dopo la bufera degli ultimi giorni (vedi il caso donazioni saudite: rimandate al mittente) vede in forse il prolungamento fino al 2022 del suo contratto. Difficile per tutti fare previsioni a lungo termine.

«Manon Lescaut manca alla Scala da 24 anni: troppi. Basti pensare che metà dell'orchestra non ha mai suonato quest'opera», osserva Chailly. La versione in scena da domenica presenta 137 battute mai ascoltate a Milano. Il finale del primo atto, per esempio, «finisce in maniera antitetica rispetto alla versione classica. C'è un senso di cataclisma, un crescendo e accelerando ossessivo. E credetemi: condurre 250 musicisti in questo accelerando è quasi da incubo. Credo che sia stato l'editore Ricordi a suggerire di cambiare questa chiusa folgorante per attenuare lo spirito radicale del passo». Il famoso Intermezzo verrà eseguito a sipario chiuso, con buona pace del regista Pountney con il quale, continua il direttore, «a volte si sono avuti incontri non dico burrascosi, ma certo divergenti. Ma questo è stato chiarito subito». Sipario chiuso, dunque, nessun movimento, solo orecchi «perché Puccini voleva che in quei 3 minuti di Intermezzo lo spettatore potesse fare un viaggio interiore, personale, pensando agli avvenimenti dei primi due atti. È un momento di meditazione e introspezione che ognuno vive in modo diverso». Si riflette sulle vicende di «Manon», donna che vive d'amore per Renato Des Grieux, ma cede al ricco Geronte e alla bella vita parigina, tenta un furto, finisce in prigione. Salperà per gli Usa, sulla plumbea nave, assieme ad altre deportate. E a Des Grieux fattosi mozzo pur di essere con lei. Morirà fra le braccia dell'amato a New Orleans, in una landa desolata. Così si chiude il dramma che vive di seduzioni, libertinaggio, tradimenti, fughe. Si congeda con Manon che in fin di vita si augura che pure la morte sia «una festa di divine carezze, di nuovissime ebbrezze». La protagonista lo canta mentre «l'orchestra fa una perorazione al destino subito dopo le parole non voglio morire. C'è l'idea di volersi opporre al destino, alla morte prematura. Un grido sinfonico profondamente drammatico. Non so come Puccini abbia voluto abolire questo commento».

Tuttavia noi lo ascolteremo.

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