Politica

Soltanto Ankara resiste a Erdogan Più di un turco su due vota il Sultano

Nonostante la recessione, gli insuccessi di guerra e i disoccupati che crescono, il presidente consolida il potere. Ma a caro prezzo

Gian Micalessin

Il Sultano traballa, ma non cade. A oltre 16 anni dal primo grande successo elettorale con cui iniziò la sua ascesa al potere Recep Tayyp Erdogan si conferma invincibile. Contrariamente a quanti prevedevano, o speravano, che le elezioni municipali di ieri segnassero l'inizio del tramonto il presidente turco primeggia ancora. Il risultato complessivo parla da solo. Alleanza Popolare, la coalizione tra il Partito della Giustizia e della Libertà (Akp) di Erdogan e il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp), braccio politico dei Lupi Grigi, sbaraglia - con il 52 % dei voti - l'alleanza laica guidata dal Partito Popolare Repubblicano fondato da Kemal Ataturk. Il luogo simbolo della vittoria è Istanbul, la città dove Erdogan iniziò da sindaco la scalata al potere. La megalopoli turca, dove l'opposizione sperava in un ribaltone, vede il successo, con oltre il 50 %, di Binali Yldrm, il fidatissimo ex-primo ministro rimasto disoccupato dopo la riforma costituzionale del 2017 con cui il presidente s'attribuì anche il ruolo di capo del governo. Unico risultato in chiaro scuro quello della capitale Ankara dove il candidato kemalista Mansur Yavas, forte di un risultato che in nottata sfiorava il 50 per cento sembra aver la meglio su Mehmet Ozhaseki, l'ex ministro dell'ambiente fermo sotto il 48 per cento. Per vincere Erdogan ha dovuto però spendersi in prima persona conducendo una campagna elettorale basata sulla contrapposizione con l'Occidente e sulla riaffermazione di quell'islamismo nazionalista di cui si considera volto ed icona. Per non perdere Istanbul ha promesso la riconversione in moschea di Santa Sofia, l'ex basilica simbolo del passato bizantino e cristiano della ex Costantinopoli. E per rivendicare il ruolo di paladino dei musulmani ha aperto i propri comizi con il filmato della strage nelle moschee neozelandesi spacciata per un complotto degli infedeli. Del resto il tema dell'identità musulmana è uno dei pochi con cui Erdogan può ancora giocare a tutto campo. Protagonista dopo il 2002 di un vero miracolo economico il presidente guida oggi una Turchia in piena recessione con un'inflazione al 20 per cento e una disoccupazione al 13,5 per cento. Ma non solo. La guerra in Siria durante la quale arrivò ad appoggiare lo Stato Islamico comprandone il petrolio si è conclusa con un totale insuccesso. Costretto ad accettare la «pace russa» Erdogan si ritrova a mantenere oltre tre milioni di profughi siriani. Proprio per far dimenticare questi ed altri insuccessi ha giocato con sussidi e aiuti economici. In campagna elettorale ha promesso aumenti del 26 per cento sui salari minimi, sconti del 10 per cento sulle bollette di luce e gas e sussidi a pioggia nel campo dell'assistenza sociale. Per ora gli è andata bene, ma le promesse si pagano.

E alla lunga le casse sempre più vuote del paese minacciano di trasformarsi nelle vere forche caudine dello spregiudicato Sultano.

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