Cultura e Spettacoli

Cisneros figlio vuole afferrare l'ombra sfuggente del padre

"La distanza che ci separa" è una biografia del discusso "Gaucho" peruviano, dal sapore di autofiction

Cisneros figlio vuole afferrare l'ombra sfuggente del padre

«Questo libro è un romanzo di auto-fiction» scrive Renato Cisneros nell'introdurre La distanza che ci separa (Bompiani, traduzione di Giulia Zavagna, pagg. 350, euro 19) e più che una spiegazione è una giustificazione. «Non è nelle intenzioni dell'autore giudicare i fatti qui narrati, così come i personaggi descritti, al di fuori dell'ambito letterario» scrive ancora e anche qui lo sdoppiamento fra vita reale e vita raccontata e/o stilisticamente ricreata sa più di sofferto escamotage che di scelta coerente. Certo, non siamo di fronte a una biografia nel senso classico del temine, e nel caso in questione la ricostruzione di quella paterna, il generale Luis Federico «il Gaucho» Cisneros, figura pubblica tanto potente quanto discussa nel Perù degli anni Settanta e Ottanta, una sorta di Pinochet andino in pectore... Tuttavia, l'idea «di riempire gli spazi bianchi con l'immaginazione perché mio padre è fatto anche o soprattutto - di ciò che io immagino che fosse», ha più a che fare con la coscienza di chi scrive che non con il supposto romanzo di una vita e l'auto-fiction all'inizio citata non riguarda l'oggetto raccontato, ma il soggetto che racconta. In breve, il vero protagonista del libro non è il paterno «gaucho Cisneros», ma «il gauchito» suo figlio e «la distanza che ci separa» che dà il titolo al libro ha a che fare con il tentativo di colmarla da parte di quest'ultimo, essendo scomparso troppo presto l'altro elemento della coppia. Nato nel 1976, Renato Cisneros non aveva ancora vent'anni quando suo padre morì, nel 1995. Era il frutto tardivo di un secondo matrimonio, in realtà mai civilmente registrato, il secondogenito di un genitore già cinquantenne e che aveva dietro di sé una moglie e tre figli, un'altra vita, insomma, che se mal si conciliava con l'esistenza regolare e scandita di un militare di carriera rientrava però perfettamente in una tradizione familiare segnata generazione dopo generazione dall'illegittimità, dall'esilio, dallo sradicamento. Questi elementi inseriscono nella biografia paterna un elemento trionfante di passione, «una passione che va contro le convenzioni», scrive il figlio, che ammorbidisce la rigidità paterna e lascia intuire qualcosa di molto diverso dalla facciata pubblica dell'uomo d'ordine e del militare professionista.

«Un cattivo in uniforme», questa la definizione che il figlio dà del padre, «un militare repressore», ma senza scomodare Hannah Arendt e la banalità del male, definizioni del genere soffrono di quel moralismo astratto che semplifica i criteri di giudizio volendo ignorare la complessità delle scelte e del fatto stesso di esistere. Curiosamente, tanto Renato Cisneros non ha dubbi sulla «repressione» paterna esercitata a livello politico-militare, tanto il terrorismo che insanguinò allora il Perù, quello senderista, quello dei Tupamaros, lo lascia tiepido. Non che arrivi a giustificarlo, né che lo attribuisca a un fenomeno comunque di causa-effetto, una reazione giusta, ma eccessiva, a una dittatura paramilitare, ma qui il moralismo astratto evita il giudizio perentorio, si distrae, come se l'apologia del terrorismo avesse una nobiltà che l'apologia del golpe non conosce e non fosse, invece, semplicemente, l'altra faccia di un'identica medaglia.

Si potrebbe obiettare, un'obiezione d'autore, che «il gauchito» Cisneros deve regolare i suoi conti con «il gaucho» suo padre e non con il senderista Abel Guzman, ed è un'obiezione sensata, ma regolare i propri conti con «un uomo che ho conosciuto nei suoi anni da morto più che nei suoi anni da vivo» non è facile: significa confrontarsi con chi «vive dentro di me, ma è così fuori dalla mia portata». Un conto è la quotidianità vissuta da bambino prima, poi da ragazzo, un altro è cercare di capire, giunti a quarant'anni, che cosa fosse quella figura che più si allontana e più sbiadisce e, soprattutto, diventa storia, ma non è più memoria.

Mario Vargas Llosa, che di Cisneros padre fu un avversario intellettuale e politico, ha definito La distanza che ci separa «un libro sorprendente», non solo per il talento con cui è scritto, ma per «il grande coraggio» dimostrato nello scriverlo. Per noi italiani, il Perù della seconda metà del Novecento resta un continente misterioso e Brigate rosse, stragi cosiddette di Stato, sevizi deviati etcetera, non sono che un tenue riflesso dei governi militari, coprifuoco, eliminazione dell'opposizione, terrorismo diffuso e esecuzioni pubbliche che lì avvennero. I nostri «anni di piombo», insomma, impallidiscono al confronto e rendono ancora più complicato capire come lo stesso Vargas Llosa e Cisneros senior si siano ritrovati a un certo punto dalla stessa parte della barricata, essendoci sull'altra il presidente Fujimori, «il dittatore civile più incapace» del suo Paese.

Una divertente battuta di Juvenal Cisneros, il fratello maggiore del «Gaucho Cisneros», getta una luce particolare su questo libro: «Mia madre ha due figli. Uno è intelligente, l'altro militare». Da intellettuale, il figlio fatica a entrare in un orizzonte mentale che non solo gli è sconosciuto, ma che non capisce. Il mondo militare, sotto qualsiasi latitudine, è un mondo a sé, fatto di una servitù volontaria che comprende miserie e grandezze. Giorni fa l'ex ministro degli Interni Minniti, figlio di un generale dell'Aviazione, ha raccontato come da ragazzo avesse chiesto alla madre di fare da intermediaria nei confronti paterni: lo sentiva distante, non si sentiva amato, compreso. «Ma come, gli permetto persino di darmi del tu» si era stupito il padre... È comprensibile come per Cisneros junior l'uniforme paterna sia stata poco più di un feticcio, mentre per Cisneros senior era una ragione di vita.

Proprio perché scrittore, dopo aver fatto il giornalista e il conduttore radiofonico e televisivo, in questo suo primo libro Renato Cisneros affida alla scrittura un compito impari: «Forse scrivere significa esiliarsi. Forse questo libro è una discreta forma di esilio». E ancora: «La letteratura penetra nelle vicende che hanno un impatto su di noi. Io avevo bisogno di questo: penetrare nella memoria di mio padre, intervenire come se quella memoria fosse un organo in attesa di un'operazione. Forse scrivere è proprio questo: invitare i morti a parlare attraverso di noi». Mi sbaglierò, ma la sensazione che provoca La distanza che ci separa è un'altra, ovvero un parlare di sé attraverso il morto, l'esatto contrario, insomma. Sicuramente Renato Cisneros crede in quello che dice, ma a me come lettore resta l'impressione di un alibi, molto ben scritto, a tratti commovente, a volte ironico, ma, come dire, un uso del cadavere a fini propri, oppure per conto terzi, che poi per molti versi è la stessa cosa, un ritagliarsi un ruolo da testimone d'accusa di fronte a un processo pubblico per evitare quello di teste a discarico. Rimanendo nell'«ambito letterario» che, come abbiamo visto all'inizio, è l'unico che dal punto di vista dell'autore interessa, la figura paterna rimane «una spiaggia smisurata» a fronte dei «pugnetti di sabbia» dal figlio recuperati.

L'ombra del padre, letterariamente parlando, sovrasta quella del figlio e, sempre letterariamente parlando, questo è un atto d'amore.

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