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Il giustizialismo ipocrita dei 5 Stelle di Palazzo

Il giustizialismo ipocrita dei 5 Stelle di Palazzo

Chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce. L'iperbole è tutt'altro che bizzarra. Sarà l'epoca del governo del cambiamento, ma di fatto non è mutato niente. Sicuramente non sono diverse le campagne elettorali segnate da inchieste, avvisi di garanzia, arresti e intercettazioni. Un andazzo che va avanti ormai da un quarto di secolo. Con un rigurgito di giustizialismo, proprio della cultura gialloverde, che alla fine si dimostra un'arma a doppio taglio.

Per tutti: due giorni fa Matteo Salvini ha preteso e ottenuto le dimissioni della governatrice piddina dell'Umbria, Catiuscia Marini, finita nei guai per l'inchiesta sui «concorsi truccati»; ieri mattina è stato Giggino Di Maio a chiedere le dimissioni del sottosegretario leghista Armando Siri, raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione; e infine, nel pomeriggio, la ministra del Carroccio Erika Stefani, insieme a tutti i leghisti che siedono in Campidoglio, ha evocato la ghigliottina politica per Virginia Raggi per le intercettazioni in cui avrebbe suggerito all'ex ad dell'Ama, Lorenzo Bagnacani, di truccare il bilancio per portarlo in rosso. E per la prima volta il complesso equilibrio del governo gialloverde che in questi mesi ha superato le differenze profonde che dividono grillini e leghisti nella politica economica, estera o delle infrastrutture, ha cominciato a vacillare davvero.

Come per tutti i governi della Seconda Repubblica, da Prodi a Berlusconi, il capitolo giudiziario rischia di essere letale. Un paradosso per chi è arrivato nella stanza dei bottoni strillando «onestà, onestà». Così ieri il vicepremier Salvini ha fatto recapitare dallo stesso premier, Giuseppe Conte, un messaggio a Di Maio, colpevole di aver chiesto la testa di Siri d'emblée. «Fai sapere a Luigi - è stata la minaccia - che dopo le elezioni europee faremo i conti». E nelle stesse ore il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha telefonato a Silvio Berlusconi per avvertirlo che il livello di guardia è stato superato: «Siamo a un passo che crolli tutto».

Forse, anche questa volta, il grattacielo del governo oscillerà paurosamente, ma non verrà giù. Sicuramente, però, per andare avanti, le due anime della maggioranza dovranno trovare, da qui alle elezioni europee, un'intesa sul terreno più impervio per i grillini: la giustizia e il suo uso politico. Il motivo è semplice: in queste ore Salvini ha toccato con mano quella che è davvero la sua debolezza, il suo fianco scoperto. Spiega senza peli sulla lingua, Giuseppe Basini, un garantista convinto, eletto a Roma nelle file del Carroccio: «Il Pd ha i suoi magistrati interventisti, i grillini si sono trovati i loro, e noi, invece, siamo nudi, inermi, alla loro mercè. E ora che i sondaggi ci danno in crescita, siamo diventati un obiettivo per entrambi».

Un ragionamento che non fa una piega e che spiega perché lo stato maggiore leghista abbia preso male le sortite grilline contro Siri. Non solo la richiesta di dimissioni di Di Maio, ma anche l'immediata decisione di Toninelli di togliere le deleghe al sottosegretario leghista e la sortita di primo mattino del presidente della commissione Antimafia, il grillino Nicola Morra, che per primo ha messo in relazione il presunto corruttore di Siri con il boss mafioso Messina Denaro. Un colpo sotto la cintura che ha mandato su tutte le furie Salvini. «Stupisce - è la bordata che la ministra leghista, Giulia Bongiorno, ha rivolto ai pentastellati - il loro giustizialismo a intermittenza, a seconda della vicenda giudiziaria».

E la decisione del vertice leghista di tenere Siri al suo posto, rispondendo per ora picche a Di Maio, è un avvertimento per l'oggi, ma, soprattutto, una precauzione per il domani: se le incursioni delle procure continueranno nelle prossime settimane, il Carroccio non può accettare che la sua campagna elettorale verso le europee, da marcia trionfale si trasformi in una via crucis. Ieri nel cortile di Montecitorio, il viceministro alle Infrastrutture, il leghista Edoardo Rixi, congetturava sulle possibili mosse per reagire all'aggressione grillina. «Intanto - spiegava - Toninelli si prenderà l'intera responsabilità del dossier Alitalia che si sta rivelando un fallimento. Poi, vista la struttura del ministero, del suo ufficio legislativo, se c'è stato qualcosa di sbagliato nella vicenda che ha coinvolto Siri, è difficile che non ci sia stata una corresponsabilità del ministro». Ma, soprattutto, Rixi ha fatto venire a galla le due paure dello stato maggiore leghista: è possibile che i grillini per sferrare un attacco simile, sappiano qualcosa di più sull'inchiesta? Ed ancora, chi può escludere che siano stati loro ad alzare la palla ai magistrati? Interrogativi che mettono in controluce, appunto, il timore che i 5stelle possano contare su una quinta colonna nelle procure.

Anche perché se questa intuizione fosse fondata, i leghisti si troverebbero in una morsa, visto che l'ostilità della magistratura di sinistra la danno per scontata. Ieri nelle file del Pd non erano pochi quelli che soffiavano sul fuoco. «Ora Salvini si goda i grillini», diceva un Dario Franceschini tranchant. Mentre l'ex guardasigilli Andrea Orlando si dilettava con l'ironia. «È singolare - spiegava - la tesi di Salvini: l'emendamento dall'industriale non c'è nel Def. E con ciò? Questo significa solo che Siri potrebbe aver fregato pure l'industriale, non altro».

E il rischio di essere attenzionati da tutta la magistratura militante, non può non far paura. «Qui - si lamenta il leader dei giovani leghisti, Andrea Crippa - se qualcuno ti convince della bontà di un emendamento, non puoi far niente, perché puoi finire incriminato per traffico di influenze. Nei fatti non puoi più far politica. Io ho paura, per cui sto in Parlamento solo per schiacciare il bottone nelle votazioni». Non parliamo poi delle elezioni. «Debbo fare il pitbull - confessa il commissario della Lega in Campania, Gianluca Cantalamessa - perché con la folla di gente che si vuole candidare con noi e con l'aria che tira, per fare le liste in posti come Castel Volturno o Casal del Principe debbo avere quattro occhi, non due».

Questi timori non spiegano, però, perché Salvini abbia accettato di andare al governo con un movimento che ha il giustizialismo nel Dna. È lì, il peccato originale. Ora può sperare solo in una metamorfosi dei 5stelle, almeno dell'ala più filo governativa. Qualche segnale sotto sotto c'è: se i leghisti hanno paura delle procure, i grillini hanno il terrore delle urne. «Alla fine - confida il senatore Elio Lannutti - non si romperà. Ma il clima è avvelenato. Morra che tira in ballo i mafiosi e Toninelli che non ci pensa un istante a ritirare le deleghe a Siri, ma come si fa? Lo dice un ex giustizialista». Mentre il presidente grillino della commissione Sanità del Senato, Pierpaolo Sileri, si lascia andare ad una mezza sentenza: «Nasciamo tutti comunisti o fascisti, ma alla fine moriamo tutti democristiani».

Appunto, il giustizialismo non va a braccetto con il governo e, tantomeno, con la poltrona.

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