Di certo due elezioni legislative nel giro di tre mesi in Israele non contribuiscono ad allentare i toni e la tensione in medio oriente. Dopo lo scioglimento della Knesset eletta il 9 aprile scorso e le nuove consultazioni fissate per settembre, si è in piena campagna elettorale e questo si ripercuote anche negli Usa. Qui mentre il congresso prova a far passare una mozione che riconosce il principio “due popoli – due Stati”, dalla Casa Bianca emerge sempre più una posizione nettamente opposta e ben agganciata alle politiche del premier israeliano uscente Benjamin Netanyahu. 

La questione dei territori

Stato ebraico ed autorità nazionale palestinese hanno nella suddivisione territoriale i principali nodi della discordia. Da questo punto di vista, gran parte della comunità internazionale riconosce i confini anteriori al 1967, anno cioè della cosiddetta “Guerra dei sei giorni“. A seguito di quel conflitto, Israele occupa la striscia di Gaza, in precedenza amministrata dall’Egitto, e la Cisgiordania che in precedenza è invece affidata al Regno di Giordania. Formalmente questi sono, sotto il profilo del diritto internazionale, territori occupati. È su queste province che i palestinesi rivendicano la propria sovranità e la formazione dunque di un proprio Stato. Con l’annessione de facto anche di Gerusalemme Est, che il mondo arabo considera come futura capitale di un futuro Stato palestinese, Israele trasferisce qui la propria capitale. Quando nel 1993, a seguito degli accordi di Oslo, viene creata l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), la sede viene fissata nella città di Ramallah in Cisgiordania.

Proprio dagli accordi di Oslo, il principio seguito da buona parte della comunità internazionale riguarda quello della possibilità di far convivere due diversi Stati, Israele e Palestina per l’appunto. A Washington la linea cambia dall’avvento di Donald Trump. La prima mossa del presidente Usa poco dopo l’insediamento, è quella di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele. In questo modo Gerusalemme Est non viene più considerata come territorio occupato, ma come territorio facente parte a pieno titolo della nazione israeliana. Una decisione che infiamma per diversi giorni sia le città palestinesi che l’intero mondo arabo.

La linea di Trump è quella di un piano di pace che assegni ad Israele le colonie negli anni piazzate in Cisgiordania, in cambio di aiuti economici ed investimenti per trenta miliardi di Euro a favore della popolazione palestinese, che avrebbe sì uno Stato ma ridotto per dimensioni e senza esercito. Un piano che, secondo Ramallah, penalizzerebbe e di molto la Palestina. La linea di Trump è molto simile a quella del premier Netanyahu: i due sono stretti alleati, prima del voto di aprile il presidente Usa proprio per aiutare il capo del governo israeliano fa un altro riconoscimento territoriale a favore di Tel Aviv. In particolare, Washington riconosce come territorio di Israele le alture del Golan, altra zona del medio oriente occupata nel 1967 a danno quella volta però della Siria.

Le parole dell’ambasciatore Usa in Israele

E adesso, dopo Gerusalemme Est ed il Golan, sembra la volta della stessa Cisgiordania. In un’intervista al New York Times, l’ambasciatore Usa in Israele David Friedman dichiara che Israele ha il diritto di annettere alcune parti proprio della Cisgiordania. Appare ancora presto per stabilire se tale affermazione è da considerarsi come un’anticipazione di una possibile nuova mossa di Trump, volta a riconoscere altre parti occupate nel 1967 come territorio israeliano a tutti gli effetti. Di certo però le parole enunciate dall’ambasciatore hanno un peso non indifferente.

Esse sembrano spianare la strada ad ulteriori concessioni del presidente Trump all’alleato Netanyahu in vista delle elezioni di settembre. E potrebbero senza dubbio far aumentare la tensione tra i palestinesi, i quali già temono i possibili effetti del piano di pace che la Casa Bianca vorrebbe impostare per il medio oriente. La questione del resto è parecchio complicata. Di fatto i confini del 1967 non esistono più, in quanto nei primi anni 2000 l’allora premier Ariel Sharon fa costruire una lunga barriera tra Israele ed i territori palestinesi che ingloba però diversi terreni della Cisgiordania. Ma si sa come, nell’intricata matassa regionale, anche una singola frase può avere effetti più dirompenti delle azioni. Ed il solo pensiero di dover rinunciare ancora anche ad un singolo ettaro di territorio, potrebbe voler dire per i palestinesi una nuova stagione di tensione.