“Processarli oppure rimandarli in Europa”: a dirlo è Michelle Bachelet, ex presidente cileno dallo scorso anno a capo dell’Agenzia Onu per i diritti umani ed il riferimento è ai combattenti dell’Isis detenuti nelle carceri di Siria ed Iraq. Un’affermazione in cui non mancano aspetti grotteschi: da un lato il palazzo di vetro sembra bacchettare due Stati che, negli ultimi cinque anni, hanno vissuto il terrore jihadista ed avrebbero invece, al contrario, bisogno di un certo sostegno politico ed economico per la ricostruzione. Dall’altro lato, la Bachelet di fatto prende in considerazione l’idea di veder tornare in Europa centinaia di jihadisti.

Il monito a Siria ed Iraq

Il caso per la verità emerge già da diversi mesi. Caduto lo Stato Islamico ed al netto dei jihadisti ancora liberi che compongono le ultime cellule vive islamiste in questi territori, il problema rimane però per circa 55mila prigionieri catturati durante le battaglie contro il califfato. Una cifra molto elevata, che al suo interno contiene numerosi foreign fighters di origine europea. Si tratta di terroristi né siriani e né iracheni, che però si macchiano durante gli anni dello Stato Islamico di gravi atti nei due paesi maggiormente coinvolti dalle avanzate jihadiste. E se il governo francese nei mesi scorsi sigla un’intesa con Baghdad, che assegna al governo iracheno la possibilità di processare (e probabilmente condannare a morte) decine di prigionieri francesi, i problemi rimangono ovviamente a livello generale per le altre migliaia di terroristi.

C’è chi nei mesi scorsi propone di creare un apposito tribunale internazionale, ma al momento questa permane soltanto una mera possibilità. Dall’Onu o, per essere più specifici, dall’agenzia guidata dalla Bachelet arrivano invece impliciti segnali che assegnano unicamente a Siria ed Iraq l’onere (molto esoso) di processare i membri dell’Isis catturati. Secondo l’agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite, i prigionieri non possono rimanere a lungo senza subire un processo. Dunque sia Damasco che Baghdad, qualora non provvedano ad una sistemazione in tal senso, si rendono responsabili di violazione dei diritti umani. Una circostanza che, guardando a quanto subito dai due paesi arabi, suona quasi come una beffa.

“Liberarli se non processati”

Ma non solo: l’alternativa data dalla Bachelet appare quasi un vero incubo per i paesi europei. Secondo il numero uno dell’Agenzia per i diritti umani, qualora i terroristi attualmente nelle carceri siriane ed irachene non vedano partire contro di loro dei processi, allora devono tornare in Europa: “La responsabilità per i foreign fighters è dei paesi d’origine – spiega Bachelet – Se costoro non vengono incriminati devono tornare in questi paesi”. Una logica che stride con la realtà: in un momento in cui si cerca di allontanare gli spettri del ritorno dei foreign fighetrs ed in cui i servizi di sicurezza mettono continuamente in guardia contro di loro, l’agenzia dell’Onu parla dell’obbligo giuridico ed etico di riprenderli in casa.

L’unico merito concreto del monito di Michelle Bachelet è quello di ricordare che il problema esiste: 55mila terroristi dentro le carceri di due paesi, quali Siria ed Iraq, che a stento riescono a gestire l’ordinario non è un affare di poco conto. A questo occorre aggiungere che per ogni terrorista, specie se di origine europea, ci sono mogli e figli a loro volta difficili da gestire. Molti bambini hanno genitori in galera e vengono lasciati soli in Siria od Iraq, senza sapere nulla del proprio futuro. Ma di certo, ammonire Baghdad o Damasco od evocare la liberazione od il ritorno dei terroristi non processati in Europa, non appare proprio un’idea in grado di far diradare dubbi sulla spinosa questione dei jihadisti detenuti in medio Oriente. Dimostra, al contrario, una sostanziale impreparazione attuale da parte della comunità internazionale nell’affrontare questa tematica.