L’epilogo di queste ore è ampiamente scritto ed atteso: un muro contro muro di questa portata termina con un’azione di forza di una delle due controparti in campo o, per meglio dire, in mare. Perché è evidente, andando a rileggere ed a rivedere i fatti salienti dei 16 giorni in cui la Sea Watch 3 resta a largo di Lampedusa, che lo scontro non è su principi umanitari o sull’accoglienza, bensì si tratta di un mero testa a testa politico. L’ong tedesca da un lato, il governo italiano dall’altro: nessuno in mezzo, nessuna possibilità di compromesso, nessun principio a cui attuare una deroga. L’ong vuole lo sbarco, l’esecutivo di Roma no: alla fine, per l’appunto, uno dei due litiganti forza il tiro. E non c’è nessun terzo che gode, smentendo anche uno dei detti più popolari. In questo caso, tra i due litiganti il terzo è rappresentato dai migranti a cui nessuno in realtà pensa veramente. E loro, sul ponte della nave, diventano vittime sacrificali di una mera bagarre politica.

Un epilogo già scritto

C’è chi in questi giorni mette in correlazione la sorte dei 40 migranti a bordo della Sea Watch 3 con quelli che, con la nave ancora a tre miglia da Lampedusa, con dei barchini entrano quasi indisturbati nell’isola più grande delle Pelagie. Ma come, è la domanda che in tanti si pongono, il governo lascia in mezzo al mare 40 migranti mentre senza troppi clamori ne entrano 200 con gli sbarchi fantasma? Ed allo stesso modo, dall’altro lato, c’è chi evidenzia i percorsi fatti dalla Sea Watch 3 negli ultimi giorni: basta collegarsi con un sito che mette a disposizione le rotte di tutte le navi civili in navigazione, per rendersi conto che il mezzo dell’ong tedesca battente bandiera dei Paesi Bassi percorre attorno Lampedusa una distanza tale da poter coprire, nello stesso arco di tempo, la navigazione verso la Grecia o la Spagna.

Ma in queste due circostanze, in realtà non c’è incoerenza. Come detto in precedenza, questi sono giorni di battaglia sul piano politico. E come in ogni battaglia che si rispetti, nessuno vuole cedere dalle proprie posizioni. Detto in altri termini, le due controparti (ong da un lato ed esecutivo dall’altro) avviano un confronto di principio netto che non ammette deroghe anche a costo di attuare pesanti sacrifici. Gli stessi che il governo, su spinta del ministro dell’interno Matteo Salvini, può permettersi politicamente e che la Sea Watch dal canto suo può permettersi economicamente.

Secondo Salvini permettere l’approdo della nave Ong vuol dire tornare nuovamente ad avere in giro per il Mediterraneo altri mezzi di altre organizzazioni non governative pronte ad emulare l’operato dell Sea Watch. Da qui l’inderogabile principio del divieto assoluto allo sbarco. Un sì all’ong tedesca avrebbe il sapore di una sconfitta e di un sì anche ad altre organizzazioni. La Sea Watch non vuole invece portare i migranti in Libia, l’unico porto è quello di Lampedusa o comunque uno tra quelli in territorio italiano. Alle ong non sta bene, per principio, sapere di non poter attuare le proprie attività nel Mediterraneo. La loro è una battaglia in primis ideologica: non a caso a supportare spesso le loro azioni sono movimenti “No Borders” e partiti od associazioni che credono in un mondo “open” dove il ruolo degli Stati e delle loro frontiere appare ridimensionato. Un “minestrone” trasversale, che abbraccia ambienti culturali sia di estrema sinistra che liberali e neo liberali.

Dunque, dopo i primi scontri con il governo italiano nei mesi scorsi, oggi la Sea Watch decide di mantenere il punto anche lei costi quel che costi. Costi litri e litri di benzina, costi anche un tentativo di speronamento di una motovedetta della Guardia di Finanza (con il quale la capitana Carola Rackete mette a repentaglio la sua incolumità, quella dei migranti e quella dei finanzieri). Tutto pur di fronteggiare, in una battaglia di nervi, la posizione altrettanto di principio del governo italiano. In un contesto del genere, lo scontro anche fisico con mezzi dello Stato italiano è dunque più che prevedibile.

Una battaglia politica

Quanto accaduto dunque, è figlio come detto di una mera battaglia politica: da un lato un governo che si autodefinisce sovranista, dall’altro una ong che porta avanti istanze ed ideologie completamente opposte. In tutto questo, il destino dei migranti viene messo in secondo piano da tutte le parti in lotta. E quando c’è una lotta, in ogni caso, c’è poco spazio per veri principi di umanità. Perché in tutto questo, mentre si intraprende una battaglia politica nel cuore del Mediterraneo, ci si distrae dalle condizioni dei migranti e non solo di quelli posti sul ponte della Sea Watch. La battaglia intrapresa fa distrarre un po’ tutti, anche se non soprattutto il mondo dei media, da quelli che sono i veri problemi a monte del fenomeno migratorio. Impegnate ciascuna a difendere la propria posizione, le parti in causa con questo braccio di ferro contribuiscono  a far spegnere drammaticamente i riflettori sul problema nel suo complesso.

Perché, in fin dei conti, la vera questione è ricordarsi che senza la destabilizzazione della Libia tutto questo non ci sarebbe. Senza la continua miopia occidentale ed europea nelle politiche intraprese nell’Africa sub sahariana, la pressione migratoria sarebbe drasticamente ridimensionata. Senza organizzazioni criminali che operano dalla Nigeria alla Libia in modo ramificato, migliaia di donne non verrebbero abusate in pieno deserto e centinaia di bambini africani non sarebbero ammassati lungo le coste. Gli scontri di questi giorni mettono tutto questo in secondo piano, fanno dimenticare dell’importanza di intraprendere percorsi volti a debellare il criminale sistema che ruota attorno all’immigrazione clandestina.

Fanno dimenticare l’importanza per il governo italiano di riprendere in mano il dossier libico, con il nostro esecutivo fermo al palo ed ancora zoppicante nelle iniziative volte a fermare la guerra in corso a Tripoli. Fanno dimenticare l’importanza di non offrire pretesti ai gruppi criminali che gestiscono la tratta dell’immigrazione di mettere in mare i barchini ed i gommoni. Fanno dimenticare tutto perché, stringi stringi, quando di mezzo ci sono solo principi politici conviene sempre che il tutto, per l’appunto, si trasformi in una gigantesca ed inopportuna arena.