L’inferno delle porteadoras

L’inferno delle porteadoras

Ceuta (Spagna) C’è chi è in attesa dalla sera precedente e chi arriva alle prime luci dell’alba: alle sei del mattino la fila di tuniche colorate in attesa alla frontiera del Tarajal II è già lunga diversi chilometri. Sotto la pioggia o con il sole, in migliaia aspettano per ore il via libera per entrare a Ceuta e recuperare chili e chili di merci da consegnare ai commercianti marocchini. Sono le porteadoras, donne nordafricane di tutte le età, che attraversano il confine tra Spagna e Marocco per trasportare le merci da un continente all’altro.

Camminano in fila ordinata, ognuna tirando il suo carrellino di ferro. Dopo aver passato i controlli sul fronte marocchino e su quello spagnolo, davanti a loro si apre il poligono commerciale della piccola enclave, una vasta aerea di magazzini che viene letteralmente presa d’assalto. “È da 38 anni che attraverso ogni giorno la frontiera per trasportare le merci sulle mie spalle”, ci racconta una porteadora 65enne di Tétouan. “È l’unico lavoro che posso fare e non ho modo di trovarne un altro”, conclude prima di rimettersi in fila per ricevere la merce.

Lontano dal centro della città e dai negozi dei più famosi marchi europei, si nasconde un’altra Ceuta. Davanti ai magazzini del poligono, i pacchi sono già pronti per essere sistemati sui carrelli. Una volta presi in carico dalla porteadora, vengono contrassegnati in modo da essere recuperati dal giusto commerciante che attende dall’altra parte della frontiera. Come formiche, le donne corrono da un negozio all’altro facendosi sistemare più merce possibile sul carrellino. Molte di loro caricano alcuni pesanti pacchi anche sulla propria schiena, curva da anni di fatiche. “Fino a poco tempo fa, l’unico modo per trasportare le merci era legarle sulle spalle. Così le porteadoras si trovavano a caricare anche più di 70 chili sulle loro schiene. Ora invece le nuove norme obbligano a utilizzare i carrelli”, ci spiega Bilal Dadi, presidente della zona industriale di Ceuta. “In questo modo la situazione è migliorata. I trolley sono comunque pesanti da spingere, ma facciamo meno fatica di un tempo”, racconta una donna. “Prima rischiavamo di soffocarci con il peso dei pacchi che stringeva le corde intorno al collo”, aggiunge un’altra. Una misura che però non piace a tutte le porteadoras. “Da quando ci sono i carrelli, sono aumentate le persone. Ora tutte vogliono fare questo lavoro e ci rubano le commesse”, protesta una donna.

Un commercio atipico

Porta dell’Europa per i migranti subsahariani, Ceuta rappresenta anche uno snodo commerciale importante per il Nord Africa. Lì dove la Spagna tocca il Marocco, la frontiera del Tarajal II permette il transito di persone che vengono sfruttate per trasportare dall’enclave al regno chili di merci di ogni tipo. Come spiega Antonio Borrego, ex responsabile della sicurezza nella zona commerciale, far arrivare i prodotti nel regno direttamente dal continente europeo costerebbe ai negozianti marocchini circa cinque volte di più rispetto al passaggio da Ceuta.

Sono le donne il sistema più economico per trasportare le merci dall’Europa all’Africa

Così mentre gli impresari nordafricani traggono benefici dal sistema, le porteadoras vengono sfruttate e sottopagate. “Si guadagnano circa 200 dirham marocchini al giorno”, ci spiega una donna. Ma da quel piccolo ricavo (20 euro circa) si devono togliere i costi di trasporto fino alla frontiera, il noleggio del carrello – che nella maggior parte dei casi non è di proprietà della lavoratrice -, qualche “mancia” alla sicurezza e agli agenti per accedere ai magazzini. A fine giornata, alla porteadora rimane l’equivalente di circa 5/8 euro. In passato, le donne riuscivano a fare più di un viaggio al giorno, ottenendo così un maggior guadagno. Ora, per motivi di sicurezza, all’ingresso del poligono commerciale a ognuna di loro viene dato un ticket da riconsegnare poi all’uscita. In questo modo, vengono tenute sotto controllo le presenze ed è più difficile riuscire a fare più di un viaggio al giorno.

Chi sono le porteadoras?

“La maggior parte di queste donne non ha altro reddito a parte quello che deriva da questa forma di commercio”, spiega Nadia Nair, membro dell’Unione azione femminista. “È la condizione economica in cui si trovano a spingerle a fare le porteadoras. Molte di loro devono mantenere da sole la propria famiglia e in questo modo riescono a occuparsi del marito o dei figli dopo aver lavorato al poligono”, continua.

Non solo vedove, casalinghe e madri. Le porteadores sono anche studentesse universitarie. Come Wafa, giovane 22enne che vive a Martil con alcune compagne di corso. “Ho iniziato a fare questo lavoro per aiutare la mia famiglia. Loro sono contrari a tutto ciò, ma io non voglio essere un peso, voglio contribuire e pagare i miei studi”, ci spiega. Dietro ai grandi occhiali, si nasconde un’esile figura. “Cerco di vivere come una normale ragazza della mia età, ma non è facile”, confessa mentre ci fa strada verso la sua cameretta. Trucchi, vestiti sparsi e pupazzi: è la stanza di una giovane ragazza che vorrebbe vivere come le sue coetanee, ma che due giorni alla settimana si reca “alla frontiera per lavorare come porteadora insieme a mia mamma”. Come spiega Nadia Nair, infatti, sono spesso le madri a portare con sé le figlie. “È un modo per avere un aiuto in più e fare meno fatica”, afferma la donna. “Il rapporto con mia mamma sul lavoro è un rapporto di tipo protettivo, come quello di qualsiasi madre con sua figlia – continua Wafa -. Lei cerca di proteggermi nei momenti più affollati e pericolosi oppure quando ci sono cose pesanti da trasportare, le prende lei al posto mio”.

Abusi e maltrattamenti

“La porteadora è l’anello più debole della catena. Queste donne passano tragedie, fame, piogge, maltrattamenti. Possiamo dire che la porteadora si prende tutto il peggio di questa situazione”, afferma l’ex responsabile della sicurezza. “Le donne denunciano differenti tipi di violenza: verbale, fisica, psicologica, economica – spiega Nadia Nair -. Alcune ragazze hanno parlato anche di violenza sessuale da entrambi i lati della frontiera”. Donne senza diritti, le porteadoras sono vittime di maltrattamenti e abusi di potere da parte delle forze dell’ordine e degli uomini della sicurezza. “Quando all’entrata gli agenti vedono delle ragazze belle e giovani le fanno passare, chiedendo spesso qualche prestazione in cambio – racconta Wafa -. Se invece si presentano delle donne più anziane, non solo le maltrattano, ma le rimandano addirittura indietro. Al poligono c’è sempre molta corruzione”.

I porteadores

La frontiera che divide Spagna e Marocco viene attraversata da migliaia di persone ogni giorno: cittadini spagnoli e marocchini, turisti, porteadoras e porteadores. A trasportare le merci da una parte all’altra infatti non sono solo donne, ma anche uomini di ogni età. “Lunedì e mercoledì lavorano le signore, martedì e giovedì invece tocca noi”, spiega Mohamed, 33enne marocchino. “Faccio questo lavoro da tre anni per mantenere la mia famiglia – continua il giovane -. Sono un meccanico, ma non riesco a trovare un’occupazione. Ho chiesto aiuto al governo, ma non ho avuto alcuna risposta. Così sono finito a lavorare qui”.

Come lui centinaia di altri uomini prendono d’assalto la zona industriale con il loro carrellino vuoto prima di oltrepassare di nuovo la frontiera carichi di merci. Ci passano accanto uomini con le stampelle, invalidi e persino ciechi che tirano il loro trolley, guidati da qualche amico. “Sono stato obbligato a fare questo lavoro, non ho altre possibilità. I miei genitori sono malati e io devo prendermi cura di loro”, ci racconta un giovane poco più che maggiorenne. Mentre il sole diventa sempre più caldo, le vie tra i magazzini si fanno sempre più affollate. “Ieri (lunedì, ndr) sono entrare nella zona commerciale 3.900 donne, oggi invece abbiamo registrato 4.382 uomini”, afferma il responsabile della sicurezza.

Pacchi ignoti

Così, chili e chili di merci a basso costo lasciano la Spagna per entrare in Marocco dove sono venduti con ampio guadagno. Ogni giorno, dalle 8 alle 14, il poligono si anima, trasformandosi in formicaio dove tutti corrono e urlano. Davanti ai magazzini la tensione è spesso alta: non mancano discussioni, spintoni e risse tra i porteadores. Molte le donne che negli anni sono morte schiacciate dal peso dei pacchi e dalla furia della folla. I nuovi sistemi di sicurezza permettono ora di mantenere sotto controllo la situazione e intervenire in modo tempestivo in caso di necessità.

Quello che però continua a preoccupare è il mancato controllo sul contenuto dei pacchi, come ci spiega Antonio Borrego:

Dentro a scatole e sacchetti può esserci di tutto. I porteadores non conoscono il contenuto dei pacchi e quindi non sanno se quello che trasportano è legale o illegale

Al Tarajal II quindi può passare qualsiasi tipo di merce: dai vestiti al cibo, ai prodotti per la casa e l’igiene personale. E non solo. Controllare l’interno delle scatole è impossibile e questo fa la fortuna dei trafficanti. “Di base portano illegalmente alcool, whisky, birra, cellulari e schede telefoniche sia rubate che di nuova generazione. Ma c’è anche chi ha trasportato armi”, conclude l’ex capo della sicurezza. “In questa scatola c’è della mortadella – ci spiega un ragazzo alla frontiera -. Così si legge sul pacco, ma non ne sono sicuro. Non posso vedere cosa contiene in realtà”.

Un commercio illegale alla luce del sole che sfrutta donne e uomini senza altre possibilità. “Spagna e Marocco fanno finta di niente, guardano dall’altra parte – tuona Nadia Nair -. Non c’è mai stata alcuna risposta sul tema da nessuna delle due parti e neanche da parte dell’Unione europea. Questa è una frontiera europea e Bruxelles ha la responsabilità di quanto accade qui”.