Cronaca locale

I miti di Guido Pajetta, tra forma e colore

In un centinaio di opere, il lungo percorso del pittore milanese legato al Novecento

In questi giorni un'altra mostra a Palazzo Reale accende i riflettori su un artista italiano del Novecento. A partire da domani apre infatti al pubblico «Guido Pajetta. Miti e figure tra forma e colore», promossa e prodotta da Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale e Fondazione Guido Pajetta. La rassegna, curata da Paolo Biscottini, Paolo Campiglio e dal figlio dell'artista Giorgio Pajetta, ripercorre attraverso 95 opere, suddivise in 8 sezioni espositive, oltre sessant'anni di lavoro dell'artista milanese che ha avuto una posizione di primissimo piano nel panorama artistico del 900. Nella sua lunga carriera Pajetta ha attraversato quasi interamente il secolo scorso, incontrandone gli stili e i personaggi più importanti ma, nonostante i numerosi sodalizi artistici e le innegabili influenze, rimane una figura anomala all'interno di questo contesto. Divisa per ambiti tematici, l'esposizione pone attenzione tanto ai rapporti di Pajetta con il panorama artistico milanese legato alla corrente «Novecento» e soprattutto a Sironi, quanto al suo successivo desiderio di entrare in rapporto con la produzione europea, e in particolar modo francese, con uno specifico interesse per il cubismo e il surrealismo. Il gesto pittorico di Pajetta, a volte leggero e veloce, altre volte graffiante e marcato, muta in continuazione. Ma se nel corso della sua carriera l'artista cambia la forma della sua pittura e si mantiene sempre in bilico tra figurativo e astratto, non è così per i contenuti, tutti riconducibili alla ricerca di sé, e di sé nella storia.

«Nel suo lavoro afferma il curatore Paolo Biscottini Pajetta pare sempre più impegnato nella ricerca di una verità recondita e forse anche di una nuova coscienza di sé. Affiora il senso di un'angosciosa solitudine a cui non pongono rimedio né il successo di critica e di mercato, né la tenacia nel lavoro o la vasta cultura letteraria.

Tormentato dalle proprie ossessioni, l'artista si affida all'immagine come a una sorta di travestimento o di alter ego».

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